L’inchiesta che insabbia
Sull'intesa Stato-mafia Pisanu grazia Scalfaro e Ciampi
di Pierangelo Maurizio Non chiamatele trattative ma «tacite intese». Mentre scoppiavano le bombe di mafia nel biennio ’92-’93 e si cercava di mettere in ginocchio lo Stato, non ci sarebbero state delle trattative quanto ci sarebbero state delle «tacite intese tra uomini delle istituzioni e boss di Cosa nostra, per fini opposti». Sono le conclusioni cui è arrivato il presidente Beppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta, e che ieri ha illustrato a Palazzo San Macuto. Tra parti in lotta, meglio in guerra, è lecito presupporre che siano intercorse una o più trattative, non in senso stretto, negoziale, ma delle interlocuzioni che hanno prodotto delle convergenze: la mafia voleva fermare l’azione repressiva dello Stato e allentare o eliminare il famigerato – per i boss – carcere duro, pezzi delle istituzioni e/o degli apparati investigativi volevano fermare le stragi e arrestare i latitanti. «Tattiche convergenti» scrive Beppe Pisanu, «ma strategie diverse». Alla fine Cosa nostra ha perso su tutti e due i fronti, anche se non è stata sconfitta completamente. Nell’attentato di Capaci, che massacrò il giudice Falcone, la moglie e la scorta, la mafia potrebbe aver avuto una «consulenza esterna». Ipotesi. Nessun mandante - Ma su di una cosa Beppe Pisanu dice, anzi sottoscrive, di essere certo. Assolve la classe politica. «I vertici politici istituzionali e politici dell’epoca, dal presidente della Repubblica Scalfaro ai presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa». E questo gli basta per stabilire che ci furono intese di uomini dello Stato con i mafiosi «ma privi di mandato politico». Assolutamente «anomala» l’ingerenza che l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro esercitò su nomine che non erano di sua competenza, è sospetto «il periodo temporale» – cioè ai primi di giugno del ’93, in piena offensiva stragista della mafia – in cui licenziò il direttore Niccolò Amato e i vertici dell’amministrazione penitenziaria, per sostituirli con il pio e accondiscendente Adalberto Capriotti al quale fu imposto come vice Francesco Di Maggio. «Irrituali» o addirittura a volte «illegittimi» furono le procedure seguite per affidare quegli incarichi e gli atti che svuotarono in parte il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Ecco, questo giudizio tranchant su Scalfaro non lo leggerete mai. Sarebbe scomparso dalla versione finale della relazione del presidente dell’Antimafia Beppe Pisanu. Ed è un giallo, o questo è quanto dicono le «voci» a Palazzo S. Mancuto. Se l’avesse mantenuto o se fosse mai esistito, la relazione avrebbe avuto almeno il merito di evidenziare il ruolo avuto dal presidente emerito, che è pure morto. Apprezzabili gli sforzi di non seguire le crociate giustizialiste, tranne lo sport nazionale, che Pisanu sposa in pieno, di accusare senza prove il Ros dei carabinieri. Così la relazione finisce per essere una marmellata. Il ministro Conso? Certo non ha agito – con la mancata proroga dei decreti 41 bis – «in sofferta solitudine», ma forse è stato tenuto all’oscuro da qualche dirigente… Le cosiddette trattative Stato-mafia più che veri negoziati furono tacite intese per fini opposti… Una marmellata con errori, qualche svarione e alcune ricostruzioni che, diciamo, non corrispondono ai fatti. E permettono di tralasciare certe sviste nelle indagini di Palermo, la vera chiave di questa storia. Nella versione finale sarebbe stato cancellato anche il riferimento al ruolo, attribuito alle indagini della procura di Palermo, del Presidente Scalfaro che chiese di indicare il nuovo direttore del Dap a mons. Cesare Curioni e a don Fabio Fabbri, cappellani delle carceri. Anche perché era un errore. Mons. Fabbri fu interrogato nel 2002 dal pm di Firenze Gabriele Chelazzi, che aveva raccolto anche le bugie del ministro Conso, ricostruito tutte le manovre intorno al 41bis, con il Quirinale come cabina di regia; e dopo la sua morte nel 2003 le sue indagini sono state semplicemente «dimenticate». Cancellate, sepolte. Benissimo fa Maurizio Gasparri, il capogruppo del Pdl in Senato, a chiedere che invece il ruolo di Scalfaro venga approfondito. Per evitare imbarazzi nelle conclusioni di Pisanu, Chelazzi non è mai citato. L’errore più macroscopico è la datazione della lettera a Scalfaro con cui i mafiosi intimarono di eliminare il 41 bis e di cacciare il «dittatore Amato». Nella relazione è indicato il «17 marzo 1993». Invece la lettera è del 17 febbraio ’93. Con la data giusta ha un senso: l’8 febbraio era stato ammazzato come un cane il sovrintendente della polizia penitenziaria Pasquale Campanello, responsabile del reparto 41 bis del carcere di Secondigliano, il giorno dopo il ministro della Giustizia Martelli per rappresaglia aveva applicato il carcere duro agli interi istituti penitenziari di Secondigliano e Poggioreale; il 21 febbraio il neo-ministro Conso come suo primo atto lo aveva revocato perché «i detenuti si sono comportati bene». Datata 17 marzo ’93 ha un altro senso. La verità è lontana - Pagina 75: «L’on. Violante era disponibile ad audire il Ciancimino (Vito) in Commissione ma nelle forme della seduta ordinaria e senza l’ausilio di riprese televisive, come gli era stato richiesto, al fine di non offrire all’audito la vistosa ribalta…». Vero? È l’esatto contrario. Era stato l’ex sindaco mafioso di Palermo a chiedere con una lettera all’allora presidente dell’Antimafia di essere audito, rinunciando alla presenza delle tv, pur di fornire «importanti elementi» (a suo dire) sui delitti politici e le stragi di mafia. Violante ne accennò in ufficio di presidenza, poi non se ne fece più nulla. Quindi se ne è ricordato 17 anni dopo; la lettera ha un protocollo sbagliato, falso o impossibile: «26 ottobre ’97», anziché 26 ottobre ’92. È difficile ritenere che la relazione del presidente Pisanu, nonostante i propositi, possa dare un contributo alla ricerca della verità.