Di Gianluigi Paragone

Le luci che illuminano l'Italia rischiano di spegnersi

Andrea Tempestini

di Gianluigi Paragone L’altro giorno il satellite della Nasa ha divulgato una fotografia del pianeta illuminato di notte. E se n’è parlato in tv. Debbo ammettere che l’Italia faceva la sua gran figura, una specie di luna park globale. Siccome eravamo a tavola, è cominciata una discussione quasi tutta incentrata su quanto siamo spreconi, su quanta energia inutile consumiamo eccetera eccetera. Ovviamente, mentre pontificavamo sulle grandi sfide future, i bimbi avevano lasciato le luci della cameretta, del bagno e del corridoio accese (no, forse quella del bagno era colpa mia), la tv idem era accesa e due prese della corrente caricavano rispettivamente cellulare e tablet. Per non dire degli elettrodomestici in posizione stand by. Per mia grande fortuna mi sono sempre tenuto alla larga da ruoli di gran moralizzatore (tenendo stereo sempre accesso non potrei), limitandomi a qualche imprecazione quando arriva la bolletta da pagare, quindi dalla discussione sono uscito indenne.  Tuttavia quella foto mi aveva colpito. Quell’immagine dell’Italia potentemente illuminata mi era rimasta nella testa. Mi piaceva osservarla con cura. Sicché, completata la carica, ho acceso il tablet e sono andato a cercare quelle foto, tentando di non fermarmi alla prima lettura facilona (troppe luci, spegniamole). Quell’Italia notturna illuminata a giorno è la radiografia del Pil italiano.  È la filigrana delle analisi del Censis e dell’Istat messe assieme. Qual è l’Italia illuminata? È il blocco del nord, è la dorsale adriatica, è il sistema Roma ed è Napoli capitale del Mezzogiorno. Roma e Napoli sembrano (e in parte lo sono) storia a sé, rappresentano due «città Stato» incapaci di creare una rete diffusa forse perché storicamente attrezzate ad accentrare su se stesse ogni risorsa. Più interessante è invece il blocco del nord e dell’Adriatico. Qui, appare chiara la continuità territoriale, economica e sociale. Nelle luci notturne ci sono i lampioni delle città che s’allungano senza discontinuità e si replicano da ovest a est, ci sono le luci delle abitazioni e degli uffici, soprattutto ci sono gli interruttori dei capannoni che resistono alla crisi.  Ecco, la crisi. Il blocco illuminato non sembra certificare una crisi di sistema, malgrado sia evidente: il capannone continua a brillare di notte indipendentemente se dentro vi lavorino due, venti o duecento operai. O che lì dentro sia rimasto solo il capo della baracca. Nella crisi si continua a lavorare. E lo si fa come s’è sempre fatto negli ultimi sessant’anni e cioè costruendo quel sistema di piccolissime e piccole imprese collegate da una rete di servizi. L’Italia dei distretti produttivi. L’Italia delle partite iva. L’Italia del piccolo èbello e funzionale. L’Italia che si è messa progressivamente in rete fino a quando, maglia dopo maglia, ha creato un blocco forte, potente sul mercato interno ed estero: il blocco del nord e il blocco adriatico. Non è la propaganda politica a certificarlo, è quel flash luminoso che dal nord abbaglia l’Europa e oltre come se rivendicasse il suo orgoglio, la sua voglia di aggredire i mercati della globalizzazione. Il nord e la dorsale adriatica sono esempi di sistema, di province che compongono una rete. Roma e Napoli (luminose anch’esse) sono un bagliore potente ma isolato, come appunto fossero città stato. Quelle foto scattate dal satellite della Nasa purtroppo non ci dicono nulla circa le proiezioni e le stime sulla durata di questo sistema. Noi, con questo sistema, eravamo uno dei Paesi più forti al mondo quanto a produzione industriale. Davamo lezioni in giro per il mondo, nonostante i mali italiani (corruzione, inefficienza dello Stato, criminalità organizzata, evasione eccetera eccetera). Quel blocco luminoso ci dice che la nostra forza era ed è nella capacità di fare rete. Per quanto ancora? Quella rete socio-economica faceva paura (nessuno me lo leva dalla testa), per questo andava colpita nei suoi fondamentali. Colpendo i piccoli imprenditori, rompendo il meccanismo dell’ascensore sociale, assottigliando il ceto medio costringendolo al bipolarismo ricco-povero, magari con gradazioni diverse. Il capannone resta acceso a prescindere da quanti lavoratori vi siano all’interno, ma se pure l’ultimo lavoratore esce di scena, il capannone si spegne. E l’anno prossimo non ci sarà più nella radiografia della Nasa. A chi tocca dunque conservare la luminosità socio-economica dell’Italia? Toccherebbe ai governi, se soltanto fossero o in grado o nelle possibilità di fare politica. Le ricette di austerity sono un gran disastro per tutti, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Monti ha aggravato la situazione perché il suo fanatismo ideologico lo ha guidato in questi mesi indirizzandolo verso le sole destinazioni a lui care, quelle finanziarie. Non è un caso che i poteri forti in giro per il mondo tifino per il professore. Ma ai poteri forti, della luminosa rete italiana, non frega nulla. Zero di zero. Dovrebbe però fregare a un governo politico, cui non resterà molto tempo per fare una seria rivoluzione se non vuole finire egli stesso bersaglio di una rivoluzione.