Nuove grane

Le primarie scoppiano in faccia a BersaniI dinosauri non vogliono le primarie

Lucia Esposito

di Elisa Calessi «E adesso Palazzo Chigi non ce lo toglie più nessuno». Al secondo piano del Nazareno ancora si respira l’ebrezza della vittoria. E già si guarda alle elezioni. Che, forse, saranno prima del previsto. Ieri, intanto, sono stati proclamati i risultati ufficiali: Pier Luigi Bersani ha conquistato 1.706.457 voti (il 60,9%), Matteo Renzi 1.095.925 (pari al 39,1%). Una vittoria perfino superiore alle attese. Ma se il pericolo rappresentato dal «giovanotto» di Firenze per ora è accantonato, il neo-candidato premier dovrà fare i conti con altri problemi. A cominciare dalle famigerate liste elettorali.  Riccardo Nencini, Socialisti, ieri si è detto certo che almeno al Senato ci sarà un listone Pd-Sel-Socialisti. C’è chi lo vorrebbe anche alla Camera dei Deputati. Ma Sel è divisa e sembra prevalere la parte che chiede si mantenga il simbolo. Si parla, poi, di una lista dei moderati, capitanata da Bruno Tabacci, magari con dentro Andrea Olivero, presidente delle Acli, e il ministro Andrea Riccardi, se il progetto di Montezemolo non decollasse.  L’altro nodo da sciogliere riguarda le primarie dei parlamentari. Se, infatti, come sembra probabile, resterà il Porcellum, il segretario del Pd dovrà tener fede all’impegno più volte ribadito: lasciare agli elettori la scelta dei candidati al Parlamento. In alcune regioni, per esempio in Emilia Romagna, si stanno organizzando da mesi. Solo che a Roma, soprattutto tra gli uscenti, non se ne vuol sapere. Si sono appena liberati dal rischio rottamazione, non ci stanno a vederlo rientrare dalla finestra. Dopo due legislature di liste bloccate, infatti, sono pochi i parlamentari che verrebbero rieletti, se la scelta si facesse nei gazebo.  Del resto le primarie creerebbe problemi allo stesso Bersani. Se fa la coalizione con Sel, i Socialisti e magari una lista Tabacci, dovrà concordare i seggi con loro. Ma come si concilia con le primarie per i candidati? Non solo. Il “Tutti per Bersani”, ossia il fatto che tutte le anime del partito si siano schierate con lui, gli ha permesso una trascinante vittoria, ma ora comporta un prezzo da pagare a ciascuna delle cinque correnti (esclusa la sesta che è quella dalemian-bersaniana). A Montecitorio gira un foglietto con le truppe che ciascun notabile esige siano rielette: Beppe Fioroni 33, Rosy Bindi 20, Dario Franceschini 45, Enrico Letta 20, Walter Veltroni 21. Ci sono, poi, le truppe scelte che Bersani vuole portarsi in Parlamento: tutta la segreteria, alcuni dello staff, i ragazzi del comitato per le primarie. In tutto 41. E c’è la quota che bisognerà dare a Matteo Renzi. Raccontano che Bersani sia tentato di usare le primarie per evitare di doversi sottoporre a una spartizione che si annuncia carica di tensioni. E per risolvere il problema di alcune deroghe, rimandando ai gazebo le scelte più difficili (tipo la Bindi o Fioroni).  I territori spingono per farle. Soprattutto dopo la grande partecipazione a quelle appena concluse. «Con un clima del genere», avvertiva ieri un ex popolare, «nessuno può sostenere le liste bloccate, a meno che non vengano reintrodotte le preferenze». Ma tra i parlamentari - e anche al Nazareno - sta montando la rivolta. Non c’è tempo, si dice. Le primarie sono uno sforzo organizzativo non da poco. Senza contare che bisogna decidere il meccanismo. E non è semplice. Con quale ordine, per esempio, vanno messi in lista i candidati? La ripartizione va fatta sulla base dei collegi o delle circoscrizioni? Soprattutto, chi può votare? I bersaniani spingono per limitarle ai soli iscritti (600 mila) o ai 3 milioni e 100mila che hanno votato alle primarie del 25 novembre. C’è chi mette in guardia dal rischio che soprattutto in certe zone, per esempio al Sud, ci siano infiltrazioni o corruzioni. Per questo è allo studio anche l’ipotesi di consentire la candidatura solo a chi è già stato eletto (in un ente locale o in Parlamento) o persino di riservare alcuni posti per salvare alcune personalità del gruppo dirigente. Andrea Marcucci, senatore del Pd vicino al sindaco di Firenze, protesta contro queste ipotesi: «Chi pensasse a nomine di imperio nei  listini bloccati o a primarie limitate agli iscritti al partito è fuori dal mondo». Un metodo condiviso, per ora, non c’è. Ci stanno lavorando Maurizio Migliavacca, Gianni Dal Moro, capo della segreteria politica di Enrico Letta, e Antonello Giacomelli, vicino a Franceschini. Ma la questione non è semplice. E, c’è da scommetterci, provocherà molte