L'editoriale
Il presidenzialismo? Ottimo.Infatti non si farà
C’è una cosa che invidio ai francesi, ed è la loro Presidenza della Repubblica. Attenzione, ho scritto presidenza, non presidente. François Hollande lo lascio volentieri a Giulio Tremonti, il quale pare essersene invaghito: a differenza sua, a me le idee del leader socialista in fatto di tasse non ispirano per niente. Al contrario, il sistema con cui si elegge il capo dello Stato transalpino e i poteri che esso può esercitare mi attraggono come pochi altri. Quando poi ho visto il neoeletto insediarsi all’Eliseo e un secondo dopo nominare il nuovo governo, oltre che decretare la riforma delle pensioni ancor prima che ci fosse il nuovo Parlamento, ho capito che se vogliamo diventare un Paese normale dobbiamo copiare dagli odiati cugini. Saranno antipatici come Sarkozy e snob come Carla Bruni, ma se c’è da far funzionare lo Stato bisogna riconoscere che lo sanno fare con la stessa semplicità con cui sfornano baguette. Mentre loro fanno tutto facile, noi passiamo a fare le consultazioni con i barbagianni della politica. Prima di decidere chi nominare, si passano in rassegna i nonni della Repubblica: una cerimonia che tutti sanno non servire a nulla, ma a cui tutti si adeguano con sussiego. Ma il peggio del peggio arriva quando il governo è fatto: allora, se deve legiferare, comincia uno dei riti più complicati che vi siano. La legge, una volta uscita dalle mani del ministro che l’ha firmata, finisce in uno dei due rami del Parlamento e lì i partiti fanno a gara per modificarla. Dopo di che, passati mesi, se non anni, il testo viene girato all’altra camera, la quale ovviamente ci mette del suo per peggiorare la norma. Risultato: dopo mesi, se non anni, la la norma ritorna al punto di partenza, cioè nella sede parlamentare da cui era partita. Se questa Camera l’approva, il provvedimento è definitivo, altrimenti si ricomincia tutto da capo, come in una specie di gioco dell’oca. Alla fine, le misure ci mettono anni a diventare definitive e quando lo sono appaiono stravolte. Ovviamente quasi sempre in peggio. La colpa di questo farraginoso meccanismo ce l’hanno i partiti, i quali le cose facili non riescono a farle. Ma buona parte dell’inconcludenza politica è dovuta anche al nostro sistema o, per meglio dire, alla nostra costituzione. Nonostante le cariatidi della politica la difendano a spada tratta come se fosse la Madonna, in realtà alla Carta su cui si fonda la Repubblica si deve la maggioranza dei nostri guai. Quando fu scritta i padri costituenti, più che al futuro, avevano gli occhi rivolti al passato: dopo vent’anni di dittatura, la loro preoccupazione era di evitarne un’altra. Per cui si diedero da fare per impedire a chiunque venisse eletto di avere troppo potere. I comunisti temevano i democristiani e i democristiani avevano il terrore dei comunisti. Dunque si trovò un compromesso in cui sostanzialmente nessuno governava, ma tutto il potere era devoluto al Parlamento. Così da noi c’è un presidente della Repubblica che non ha nessun ruolo, se non quello di fare prediche inutili e firmare leggi (ma come atto dovuto), e un premier che non può neppure nominare o licenziare un ministro. Che il nostro sistema produca solo governi che non governano è dimostrato dai tecnici: nonostante una maggioranza mai vista prima, un consenso superiore alla media e un capo dello Stato che li sostiene a spada tratta, sono nel pantano. Quindi cambiare la costituzione e adottare le regole francesi, con il presidenzialismo e il doppio turno, è la cosa più urgente da fare. Ma proprio per questo in Italia non si farà. Prova ne sia che appena Silvio Berlusconi ieri ha aperto bocca e suggerito di modificare il sacro testo copiando i cugini, da Bersani e compagni ha ricevuto solo pernacchie. Una reazione prevedibile. Un po’ perché arriva fuori tempo massimo, alla fine della legislatura e con un Pdl ridotto ai minimi termini, senza cioè grande potere contrattuale. E un po’ perché al Pd le cose vanno bene così come sono. Dopo i risultati delle ultime elezioni, i progressisti assaporano la vittoria delle prossime politiche e dunque non vogliono cambiare nulla, né la legge elettorale né il sistema istituzionale. Con le percentuali ottenute alle amministrative, si sentono sicuri di governare e dunque preferiscono tenersi il porcellum e pure una presidenza della Repubblica decrepita. Anche perché temono che, una volta fatta la riforma, Berlusconi risorga e ne approfitti per candidarsi al Quirinale, cosa non da escludere dato che l’uomo ha sette vite e finora ne ha esaurite solo tre o quattro. Fossimo nel Cavaliere però, invece di pensare al Colle, penseremmo al Pdl. Sarà una riforma meno appassionante di quella presidenziale, ma se non si salva il partito non si salva neanche il resto. Coraggio Silvio, comincia a rifondare il partito. Poi, forse, anche il resto arriverà.