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Fausto Carioti: Donne e libertà di parola hanno perso le olimpiadi

Fausto Carioti

Due capri sono stati immolati sulla fiamma olimpica di Parigi. Il primo è il diritto delle donne ad avere caratteristiche sessuali e biologiche diverse da quelle dagli uomini ed essere trattate di conseguenza. Se la coerenza non fosse un foulard da indossare nelle occasioni preferite, le conseguenze per il movimento sportivo mondiale sarebbero enormi. Prendere alla lettera il tedesco Thomas Bach, presidente del Comitato olimpico internazionale, quando dice che non esiste un sistema «scientificamente solido» per distinguere uomini e donne, significherebbe cancellare la divisione delle gare tra maschili e femminili e approdare alle Olimpiadi non binarie (togliendo così ogni senso alla partecipazione sportiva delle donne, come denuncia il ministro Eugenia Roccella). Il secondo caduto è la libertà di parola.

Le due vittime sono parenti strette. Non che prima se la passassero bene, ma escono da Parigi assai peggio di come c’erano entrate due settimane fa. Il sigillo finale l’ha apposto Nabil Boudi, avvocato francese di Imane Khelif, annunciando che la pugile algerina «ha deciso di fare un nuovo combattimento: quello della giustizia, della dignità e dell’onore». Significa che ha presentato denuncia per avviare un’indagine giudiziaria contro chi, online, ha osato mettere in dubbio la sua appartenenza al genere femminile.

«L’inchiesta penale determinerà chi è stato l’iniziatore di questa campagna misogina, razzista e sessista, ma dovrà anche interessarsi a coloro che hanno alimentato questo linciaggio digitale», dice il legale. Nella città in cui Alexis de Tocqueville, tornato dall’America, spiegò ai suoi connazionali che la libertà di espressione e di stampa è alla base di tutte le altre, mettere in dubbio il sesso di un’atleta che non era stata ammessa ai mondiali perché gli esami medici non la identificavano come donna comporta oggi l’accusa di razzismo, e domani una probabile condanna.

LA DIFESA DEL DOGMA
Non stupisce il tentativo della pugile e del suo staff di cavalcare la polemica e prolungare il più possibile il quarto d’ora di notorietà. Ed è normale anche che il suo avvocato abbia un curriculum specializzato in diritti dell’uomo (nessuna ironia) e rilanci sui propri social network una prima pagina del Manifesto, quotidiano comunista italiano: in prima fila tra chi invoca censura e sventola manette c’è proprio la sinistra un tempo libertaria.
Tanto da far passare come normale, anzi igienicamente necessaria, la cacciata da Facebook, il social network controllato da Mark Zuckerberg, del biologo evoluzionista inglese Richard Dawkins, il cui insulto alla morale consiste nell’aver scritto che «pugili geneticamente maschi come Imane Khalif (XY indiscusso) non dovrebbero combattere contro le donne alle Olimpiadi».

Anziché accettare la competizione tra le idee e criticare una teoria, giusta o sbagliata che sia, come prevedono le regole del confronto democratico (e pure del progresso scientifico, quando a farlo sono gli stessi scienziati), il nuovo modus operandi prevede di isolare, silenziare e punire chi contesta il dogma. L’etichetta di «razzista», maneggiata con disinvoltura dall’avvocato di Khalif e da almeno metà della sinistra europea, è perfetta per lo scopo.

L’AFGHANA DIMENTICATA
Le donne, in questa battaglia, sono vittime collaterali. La loro causa è un altro accessorio prêt-à-porter e lo ha dimostrato pure il trattamento riservato all’atleta afghana Manizha Talash, fuggita dai talebani, in gara con la squadra dei rifugiati e squalificata a Parigi per aver indossato un drappo con la scritta «Free afghan women», liberate le donne afghane, al termine della sua prova. Questo gesto è stato ritenuto una violazione dell’articolo 50 della Carta Olimpica, per il quale «nessun tipo di dimostrazione o propaganda politica, religiosa o razziale è permesso in qualsiasi sito, sede o altra area olimpica».
Tutto normale? Per il Partito democratico sì. Lì nessuno ha voluto spendere una parola per questa ragazza, ignorata anche dalle femministe Elly Schlein e Laura Boldrini. Vibrante di sdegno, la segretaria è scesa in campo per difendere l’algerina Khelif dall’«asse della destra nazionalista tra Trump, putiniani, Salvini e Meloni, perché vogliono decidere loro che non può essere una donna».

Ma non vede scandalo se a una ragazza scappata dal regime più misogino del pianeta è impedito di chiedere le libertà basilari per le sue connazionali.
È giusto che tutto questo avvenga nella città dei lumi e nel Paese che ha brevettato ed esportato i principi di Liberté ed Égalité, perché ci fa capire meglio cosa sono diventati. La Liberté, se non comprende il diritto di esprimere le proprie idee senza temere condanne, censure o ritorsioni, è poca cosa. E l’Égalité fa presto a trasformarsi in una presa in giro, se la sua traduzione in pratica significa mettere sullo stesso piano individui che non lo sono, come due atleti che hanno biologia e ormoni diversi.