Editoriale
Mario Sechi: Gaza e Ucraina, due conflitti che si allargano
«A che ora è la guerra?». È la domanda che da giorni fa il giro delle prime pagine dei giornali, come se fossimo in uno scenario dove regna la pace: in Ucraina si combatte contro l’aggressione russa da 898 giorni, a Gaza il conflitto è arrivato a 308 giorni e ieri sono trascorsi 10 mesi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre del 2023, il giorno della caccia all’ebreo nei kibbutz di Israele. Se guardiamo i due teatri, l’escalation è già in corso: gli ucraini sono entrati in territorio russo a Kursk e l’Unione europea ha affermato che «l’Ucraina è vittima di un’aggressione illegale e ha il diritto di difendersi e di colpire il nemico anche sul suo territorio», una posizione che in molti Paesi riaprirà le divisioni sulla conduzione della guerra, a cominciare dall’Italia; dopo l’attacco di Hezbollah che ha ucciso 12 ragazzini in un campo da calcio sulle alture del Golan, gli israeliani hanno bombardato il Libano ed eliminato il leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, con un raid in Iran, un’operazione che ha colpito il cuore del potere dell’ayatollah Ali Khamenei.
A questi campi di battaglia va aggiunto il quadrante del Mar Rosso dove gli Houthi continuano a fare il tiro al bersaglio contro le navi mercantili e hanno alzato la posta lanciando un drone su Tel Aviv, operazione che ha innescato il primo intervento di Israele nello Yemen con il bombardamento delle strutture petrolifere del porto di Hodeidah. Basta tracciare la mappa con un compasso per vedere che il raggio d’azione militare si sta espandendo e le opzioni per la pace si stanno restringendo. Bisogna comunque provarci - con realismo, non con pericolose utopie - ben sapendo che gli interlocutori sono mossi da interessi profondi e lacerazioni abissali: Israele è di fronte a una minaccia esistenziale, mentre i suoi nemici pensano che questo sia il momento di colpire ancora più duramente. La diplomazia in Ucraina è in stallo, lo scambio di prigionieri tra Stati Uniti e Russia non ha cambiato lo scenario, l’offensiva di Kiev a Kursk ha innescato la reazione di Putin che ha definito la sortita «una provocazione su larga scala», l’arrivo degli F-16 darà all’Ucraina miglior copertura aerea (ma ancora insufficiente), la posizione espressa dall’Ue non è un messaggio utile per la de-escalation del conflitto, la strategia della Casa Bianca è condizionata dalla campagna presidenziale dove il Presidente Joe Biden non c’è più, ma essendo «unfit» perla corsa elettorale è percepito come il Commander in Chiefdebole di un’amministrazione dove la Vicepresidente Kamala Harris punta alla vittoria contro Donald Trump. Visto l’intreccio, c’è da sperare che ci sia qualcuno al timone, probabilmente quell’uomo si chiama Jake Sullivan. Tutto è fermo, niente è impossibile. Anche una risposta a sorpresa del Cremlino, se la Russia «non può perdere» e l’Ucraina «pensa di vincere», il conflitto è in una trappola strategica. Bisogna sempre ricordare la lezione del padre della dottrina del containment, George F. Kennan: «È una conditio sine qua non per trattare con successo con la Russia che il governo straniero in questione debba mantenere in ogni momento il sangue freddo e la calma e che le sue richieste sulla politica russa debbano essere presentate in modo tale da lasciare la strada aperta per una risposta non troppo lesiva del prestigio russo». Siamo lontani da tutto questo, anche Putin.
In Medio Oriente qualcosa si muove, ma anche qui pesano i problemi interni degli Stati Uniti (Kamala Harris punta al voto degli islamici americani, tanto da scegliere Tim Walz come vice e scartare Josh Shapiro perché ebreo) e sul terreno ogni giorno si aprono voragini. L’Italia fa la sua parte, ha buoni rapporti con i governi del Medio Oriente, una politica aperta fin dai tempi di Giulio Andreotti e Bettino Craxi. Ieri Giorgia Meloni ha avuto un colloquio telefonico con il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, lo scopo era quello di invitare gli iraniani (come ha già fatto con Israele) a «evitare un’ulteriore escalation e a riaprire la via del dialogo». La diplomazia italiana ha sempre sottolineato l’importanza del negoziato, senza mai venir meno all’impegno atlantista, ai valori dell’ordine liberale. Il pacifismo astratto non è nell’orizzonte di idee di Meloni, la pace è sempre minacciata dai tiranni e si costruisce organizzando prima di tutto la difesa. I timori per un attacco dell’Iran sono concreti, questa settimana il capo del Central Command americano, Michael Kurilla, è stato in Israele due volte per coordinare la difesa, mentre Sergei Shoigu, già capo dell’esercito russo, è stato a Teheran, un chiaro segnale agli Stati Uniti. Le varianti sul piano tattico sono tante e le operazioni di distrazione sono in corso (qualche giorno fa, una base americana in Iraq nel governatorato di al-Anbar è stata centrata da due razzi Katyusha), si può colpire Israele nel suo territorio o altrove nel mondo, può farlo direttamente Teheran, possono agire Hezbollah o Hamas, gruppo che è ancora una minaccia, oggi guidato da un terrorista spietato come Yahya Sinwar. Quest’ultimo, condannato con 4 ergastoli, è stato 22 anni in prigione in Israele, ma nel 2011 è stato liberato (grave errore) con uno scambio di prigionieri. Nel suo periodo in cella Sinwar ha passato il tempo a studiare l’organizzazione militare e sociale dello Stato ebraico, la sua ossessione era cogliere i punti deboli del nemico e colpire. L’assalto del 7 ottobre si è mosso in quella direzione: non solo uccidere, ma offendere i corpi degli innocenti, smembrarli e bruciarli, violentare le donne, sequestrare i bambini, mettere in mostra l’orrore, filmare la barbarie e diffonderla via social, come è accaduto. Sinwar e i capi di Hamas si aspettavano una reazione dura, ma forse non così veemente, una guerra lunga di Israele. Se Sinwar è quello che descrivono (ieri ha fatto trapelare di «essere scontento» della sua nomina, pensa che sia «una trappola» e nello stesso tempo sarebbe disponibile a una tregua), Hamas prenderà ancora tempo, quello che serve a Sinwar per riorganizzarsi, perché ci sarà qualcun altro a lanciare i missili contro i suoi nemici.