Accordo fatto
Sandro Iacometti: ci siamo liberati di Alitalia
Certo, in ballo ci sono il turismo e gli affari in Italia, la possibilità di tornare a competere sui mercati europei e internazionali, la svolta per un Paese ridotto a terra di conquista delle compagnie low cost, prospettive occupazionali importanti per i tanti professionisti del volo che hanno scelto di scappare all’estero e per quelli che invece sono rimasti in patria confidando in un ripartenza dell’ex vettore di bandiera su cui, bisogna dire la verità, credevano in pochi.L’esperienza, del resto, ci ha insegnato che almeno negli ultimi 20 anni (ma la storia è ancora più antica) la vecchia Alitalia non riusciva a far partire un aereo senza dare prima una bella spremuta ai contribuenti.
Sarà per questo che tra le cose che Giancarlo Giorgetti ha tenuto a sottolineare nella conferenza stampa in cui ha annunciato il via libera all’accordo tra Ita Airways e Lufthansa, più delle prospettive industriali, dei dettagli tecnici e del ruolo giocato dal Mef nel condurre in porto l’operazione, c’è stato il fatto che «si chiude una storica e annosa vicenda» e si può finalmente «dire agli italiani che non ci metteremo più un euro delle loro tasse». Già, perché più di ogni altra cosa, più di quel tricolore che svettava nei cieli sulla coda degli aerei, l’Alitalia è stata per gli italiani una storia di sperperi, di sprechi e di continui salvataggi pubblici.
Uno studio di alcuni anni fa di Mediobanca ha diviso l’odissea della ex compagnia di bandiera in due grandi tronconi: il primo fra il 1974 ed il 2007 ed il secondo fra il 2008 ed il 2014. Tra il 1974 e il 2007 quando Alitalia è stata commissariata- lo Stato ha speso 5,397 miliardi di euro tra aumenti di capitale (4,949 miliardi), contributi (245 milioni), garanzie prestate (8 milioni) e altri contributi pubblici (195 milioni). Nello stesso periodo la compagnia, tra collocamenti e negoziazioni, imposte e dividendi ha generato entrate per lo Stato per 2,075 miliardi di euro. Il saldo finale è in rosso per 3,322 miliardi. Tra il 2007 e il 2014 inizia l'amministrazione controllata. Gli interventi da parte dello Stato sono diversi e variegati, la maggior parte dei quali spalmati su più esercizi. Si inizia nel 2008, quando il governo Berlusconi, sostenuto con forza dai sindacati, compresi quelli agguerritissimi dei piloti, saliti sulle barricate contro la privatizzazione, fermò la cessione ad Air France per puntare all'italianità, con i cosiddetti capitani coraggiosi, e con un prestito ponte da 300 milioni. Sono gli anni della cosiddetta Operazione Fenice, che sotto la regia di Intesa Sanpaolo mette insieme una cordata aggregando Air One e una ventina di imprenditori italiani, a cominciare da Roberto Colaninno. L’esito fu la nota scissione di Alitalia fra una “good company” che si tenne la flotta aerea e vide associarsi Emilio Riva, la famiglia Benetton, Salvatore Ligresti, il Gruppo Pirelli, Marcellino Gavio e l’allora numero uno di Confindustria Emma Marcegaglia, e una “bad company” che, al costo pubblico di 3-4 miliardi di euro, si tenne solo i debiti.
Da allora è un tripudio di sigle, di fallimenti e di salassi per i conti pubblici. Prima Lai, poi Cai, infine Sai. Gli ad cambiano e si alternano con la velocità di Fregoli. Ma i risultati sono sempre gli stessi. I conti non decollano. La compagnia brucia cassa e aumenta il rosso. Il governo torna in campo nel 2014, col premier Matteo Renzi, che costringe pure le Poste a investire 75 milioni di euro nell’idrovora volante. Le uscite dal 2007 al 2014, anno dell'ingresso di Etihad con il 49% e della nascita della nuova Alitalia svincolata dallo Stato, sono pari a 4,1 miliardi di euro, arrivando così ad un totale di 7,4 miliardi tra il 1974 e il 2014 tra aumenti di capitale, contributi e garanzie. Somma che, attualizzata, sale a circa 8 miliardi. Finito il sodalizio con Etihad, nel 2017 il governo Gentiloni, che commissaria di nuovo la compagnia promettendo una rapida soluzione, concede altri due prestiti ponte per complessivi 900 milioni di euro per tenere Alitalia in volo. A cui bisogna aggiungere anche altri 1,1 miliardi per la cassa integrazione dei dipendenti post-insolvenza.
Ma non è finita. A dicembre 2019 il governo M5S-Pd concede altri 400 milioni. A questi si aggiungono 3 miliardi stanziati per la newco Ita Airways a maggio 2020, nello stesso anno vengono stanziati 350 milioni per gli indennizzi Covid e altri 330 milioni per la cassa integrazione di oltre 6.800 dipendenti nel periodo novembre 2020-settembre 2021. Arriva poi il decreto Sostegni bis che stanzia altri 100 milioni per garantire l’operatività della compagnia e il pagamento degli stipendi in attesa del decollo di Ita, mentre a fine giugno viene istituito un fondo biglietti da 100 milioni di euro per rimborsare i viaggiatori di Alitalia in vista del passaggio alla newco.
Com’è evidente, il calcolo preciso, tra prestiti, interessi non rimborsati, iniezioni di capitale, ammortizzatori sociali e chi più ne ha più ne metta non sarebbe in grado di farlo neanche un supercomputer dotato di intelligenza artificiale. Ma a spanne gli errori, gli accanimenti terapeutici e l’incapacità di mettere fine ad una decennale patologia ci hanno succhiato dalle tasche qualcosa come 13-14 miliardi. Il che sembra un motivo più che sufficiente a festeggiare senza esitazioni né sopraccigli alzati l’annuncio arrivato ieri dalla Ue e dal governo. Ovviamente, trattandosi di Alitalia, sempre meglio incrociare le dita.