Il libro di Culicchia
Sergio Ramelli, ecco cosa di deve ricordare il suo omicidio
Tempo fa mi ha scritto Guido Giraudo, autore con altri del primo libro inchiesta sulla vicenda di Sergio Ramelli, e mi ha annunciato che Sergio stava diventando un “caso editoriale”. Si riferiva ai libri che su Ramelli sono usciti e stanno uscendo: quello di Nicola Rao, Il tempo delle chiavi, quello di Pino Casamassima, Hazet 36, quello di Giuseppe Culicchia, Uccidere un fascista e un altro di Federica Venni, giornalista di Repubblica, che uscirà in aprile.
«Anni di lavoro sono serviti a qualche cosa», concludeva Giraudo. Non ci si libera facilmente della morte brutale di Sergio. Anche chi la vorrebbe giustificare, anche chi la vorrebbe ignorare, ci si imbatte e ne viene in qualche modo torturato. Il libro di Culicchia, di cui ci occupiamo qui, è particolarmente importante perché il suo autore è un narratore, uno che sa toccare corde emotive profonde, perché lo pubblica Mondadori e finalmente un morto missino entra in un grande circuito editoriale e poi perché Culicchia aveva un cugino cui voleva bene, Walter Alasia, che scelse di fare il brigatista e per questo morì.
Culicchia è circondato dagli interrogativi sugli anni di piombo e scrivendo di Ramelli ha cercato con onestà e sincerità alcune risposte. Non gli interessa il simbolo cui vengono tributati i saluti romani. Gli interessa il ragazzo. «Ciao Sergio, io non ti conoscevo. Mi permetto di darti del tu...«. Comincia così il suo “Uccidere un fascista”.
Dicevamo delle risposte: una di quelle date da Culicchia, oltre la banale causa dell’odio, ci riporta a Piazza Fontana, alle stragi, ai verbali della commissione Stragi, alle parole provocatorie di Pasolini. Con la strage del dicembre 1969 – spiega - si riapre una fase di una guerra civile mai sopita che riprende la ferocia del biennio 1943-45. Il titolo che si può dare a quella guerra è ben riassunto dallo slogan “uccidere un fascista non è reato”. Fu una caccia all’uomo provocata da chi, seguendo la tesi pasoliniana, intendeva stabilizzare il potere e non destabilizzarlo. Ci andò di mezzo Sergio, ma poteva capitare a tutti quelli che all’epoca non decisero di stare due metri a distanza. C’è poi lo sguardo di chi fa letteratura, penetrante, di chi conosce la poetica del dolore. Bene l’idea di far parlare i luoghi. «Il mio nome è via privata Ettore Paladini... lui era solo.
Loro lo hanno circondato. Gli sono saltati addosso in due... il sangue di Sergio lo hanno asciugato con la segatura, ma ci sono volute molte piogge prima di lavarlo via dall’asfalto». Culicchia è attento ai particolari: quanto pesa una chiave hazet 36? Tre chili e mezzo. Quelli del commando erano studenti di medicina, non potevano non sapere. Si sforzò di farlo capire in tribunale, quando dieci anni dopo gli assassini furono trovati, l’avvocato della famiglia Ramelli Ignazio La Russa. Volevano ucciderlo o fargli molto male. Se fosse sopravvissuto – racconta la madre Anita – sarebbe rimasto paralizzato e muto. Tutto per un tema. Un tema sulle Brigate Rosse.
Si dirà: ma se la storia si conosce, perché leggere ancora di Sergio Ramelli? Perché non è mai abbastanza. E Culicchia li ricorda tutti i morti missini e ricorda il partigiano Sandro Pertini al capezzale di Paolo Di Nella eppure ogni volta che qualcuno anziché scrivere di quei morti e del dolore che resta parla a vanvera dei saluti romani, ogni volta che qualcuno in tv o su un giornale o su un social incita all’odio antifascista, ogni volta che qualcuno giustifica o minimizza, allora c’è bisogna di rileggere la storia di Sergio e di imprimere nella memoria il suo volto innocente, l’espressione indifesa, gli occhi buoni, i capelli lunghi come uno qualunque.
Uno qualunque a cui hanno fracassato il cranio, e nemmeno lo conoscevano. A spiare le sue mosse mandarono una ragazza, una qualunque anche lei, che aveva una foto di Sergio. Lei si appostò per giorni di seguito. Come un killer. Per poi stabilire col gruppo il luogo, l’orario, il come. E sul perché è bene che si scrivano pagine e pagine.