Firma di Repubblica
Francesco Merlo su Bianca Balti e Bove: disprezza anche i malati pur di insultare la destra
Quella tra Mirella Serri e Francesco Merlo a proposito dell’affaire-Cristicchi (ricordiamo, lo scandalo di cantare la malattia della madre piuttosto che qualche luogo comune pseudo-contestatario) è ormai una corrispondenza compulsiva.
Lei aveva già scritto alla rubrica “Posta e risposta” di lui su Repubblica di domenica, e i due si erano indignati all’unisono per l’inaccettabile “mammismo” del cantautore, quest’attaccamento reazionario al genitore 1 (o 2?). La Serri però sentiva che il Paese aveva bisogno di proseguire il dibattito, e quindi ha replicato ieri, stessa testata e stesso destinatario.
Caro Merlo, è il sunto, non è vero che Cristicchi è criticato perché «di destra», ma perché ha «banalizzato una patologia assai grave» (l’Alzheimer) per «sollecitare la lacrimuccia facile». Non un capolavoro di empatia, ma è niente di fronte alla risposta del nostro, che offre un saggio compiuto del “merlismo”. Il merlismo è una malattia senile del progressismo, che ne esaspera una tendenza ultradecennale: il manicheismo (radical)chiccoso, la divisione del consorzio umano in due gruppi non comunicanti tra loro (sarebbe troppo volgare, prima ancora che sbagliato). Da un lato ci sono gli Eletti, coloro che per scambiarsi un parere sul Festival di Sanremo non usano Whatsapp, ma si scrivono sulle pagine di Repubblica. Dall’altro c’è la Plebe canticchiante e cliccante, che non imbrocca mai una citazione, suda troppo e a volte ha perfino il cattivo gusto di stare male. Con l’inarrivabile Verbo merliano: «Forse, mi sono detto - gli Eletti colloquiano parecchio anche col loro Io sublime, oltre che coi pari grado, ndr - la canzone piace perché sta dentro il vittimismo, che è ideologia italiana, il calciatore che sviene, la modella in chemioterapia: è il nazional-patetico».
Giusto per dare un nome ai tipi (sotto)umani evocati (la grande firma non lo fa mai, sarebbe come ammetterli allo stesso tavolo, nonostante probabilmente non sappiano usare le posate): il «calciatore che sviene» è Edoardo Bove, ospite all’Ariston. Sì, durante Fiorentina-Inter del dicembre scorso, Edoardo è crollato a terra, perché il cuore aveva smesso di pompare. Ora vive con un defibrillatore sottocutaneo, e si è permesso persino di condividere la sua nostalgia insopprimibile per il calcio, passione Plebea se ce n’è una. La «modella in chemioterapia», invece, è Bianca Balti, anch’essa presente alla kermesse vittimista con la sua testa rasata e il suo cancro ovarico al terzo stadio (nemmeno abbattuta peraltro, ma nel pieno di quello slancio vitalista). Tutto questo, con colonna sonora di Cristicchi, va a comporre il «nazional-patetico», l’ultima categoria etica ed estetica escogitata dai Dotti e dai Buoni, da coloro che sospirano “restiamo umani” mentre sorseggiano lo champagne versato dal domestico di colore e inorridiscono all’idea di contenere l’immigrazione, dai professionisti tanto impegnati contro l’Odio da dimenticarsi di non praticare l’odio minuscolo, quotidiano, reale.
Come l’Autodidatta narrato da Sartre ne “La Nausea”, costoro amano moltissimo l’Umanità astratta, ne hanno edificato un culto retorico e forbito. Se però si imbattono in un essere umano in carne e ossa, che non appartiene al club e magari beve vino dozzinale, potrebbero non reggerne la presenza. È l’ultimo esito dell’alterità morale introdotta nel discorso pubblico da Berlinguer, ma assomiglia molto di più al celebre aforisma del marchese del Grillo: «Io so’ io e voi nun siete un cazzo». O, peggio, siete dei nazional-patetici irrecuperabili.