L'intervista
Bruno Vespa si confessa: "Come resisto in tv da 30 anni. E la sola frase che non direi più"
Hitler e Mussolini. Due cognomi che possono stare sulla copertina di un libro ma non sulle pagine social di Facebook e Instagram. Bruno Vespa l’ha notato e sottolineato, additando il politically correct come responsabile di quella che è a tutti gli effetti una censura. Incontriamo Vespa in occasione dell’uscita del nuovo libro Hitler e Mussolini. L’idillio fatale che sconvolse il mondo (e il ruolo centrale dell’Italia nella nuova Europa) edito da Mondadori/Rai Libri. Si tratta del volume numero 33 che supererà il traguardo dei 4 milioni e mezzo totali di copie vendute nei tre decenni.
Direttore, dunque sui social si può scrivere Stalin ma non Mussolini e Hitler. Come se lo spiega?
«È una storia curiosa anche perché, per dirla fino in fondo, Stalin ha fatto più morti di Hitler. È certificato da tutti gli storici. Io resto dell’idea che, specie quando si parla di Storia, non si debba censurare nessuno ma evidentemente gli algoritmi sono programmati con la stessa logica di chi abbatte le statue di Cristoforo Colombo. Qualcosa legato a un’idea di politicamente corretto che è veramente folle, oltre al fatto che trovo inquietante la legittimazione di un dittatore che è stato il più sanguinario di tutti».
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Da qualche anno ha intrapreso il confronto con la Storia e in particolare proprio con quella dell’Italia fascista. Perché?
«Da vent’anni, precisamente, dal 2004 quando con la testimonianza di Giulio Andreotti feci Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi. È un filone che ancora interessa molto. I due dittatori sono personaggi che hanno marcato in maniera profonda e drammatica la Storia e restano sempre in primo piano con il fascismo che è durato vent’anni e il nazismo dodici. In Italia c’è stata una guerra civile di mezzo. Alcuni dei figli e i nipoti di chi vi ha preso parte sono ancora vivi, per cui ancora si tratta di sangue fresco, il sentimento è ancora molto forte».
Lei comincia a scrivere libri di fatto con l’avvento della Seconda Repubblica. Berlusconi, Fini, Prodi, D’Alema erano più o meno avvincenti dei protagonisti attuali?
«Avevano vite alle spalle più lunghe. Quelli di oggi sono molto più giovani. Sicuramente la differenza principale è questa. I protagonisti di oggi sono davvero molto contemporanei».
Cosa fu a farle scattare la scintilla da cui sono nati 33 libri?
«Il fatto che nel 1993, quando ero stato ingiustamente emarginato dalla Rai, avevo molto tempo libero e scrissi Telecamera con vista. Il libro andò bene e poi ho continuato fino ad oggi. Prima di allora, nel 1980, avevo scritto solo un altro libro per Laterza, Intervista sul socialismo in Europa. Craxi era arrivato da poco e c’era grande curiosità nei suoi confronti. Grazie a quel libro intervistai tutti i leader socialisti europei».
Memorabili sono anche i suoi incontri con i pontefici.
«Giovanni Paolo II, in particolare, che è il mio Papa. Lo conobbi da cardinale. Volevo intervistare il mitico primate di Polonia, il cardinale Stefan Wyszyski. Non fu possibile e Wojtyla mi disse: dovrà accontentarsi di me. Quando andai a Cracovia mi stupì il rapporto che aveva con la gente, coi giovani in particolare, il suo carisma. Tanto che gli chiesi: non sarebbe ora di avere un Papa polacco? Quindi posso dire di avergli portato anche un po’ di fortuna...».
Un racconto che viaggia con lei da trent’anni grazie a Porta a Porta... Qual è il segreto di questa longevità?
«Sopravvive perché non ha mai imbrogliato nessuno. Siamo sempre stati corretti e sulla lunga distanza questo paga. Da noi sono venuti tutti. Esordì Prodi nella prima puntata, poi fu la volta di Berlusconi e D’Alema che proprio quel giorno fecero saltare l’accordo per il governo Maccanico».
Berlusconi era presenza fissa alle presentazioni dei suoi libri. Quanto manca a lei e all’Italia?
«A me manca molto, perché con gli anni si era poi creato anche un rapporto personale. Negli ultimi anni Berlusconi mi mi aveva ripetutamente chiesto di passare a Mediaset. Io però gli ho sempre risposto che finché avessi lavorato bene in in Rai non me ne sarei andato. Per il resto Berlusconi è insostituibile tant’è vero che Antonio Tajani ha scelto di fare il segretario e non il presidente perché la presidenza di Forza Italia è morta con Berlusconi. C’è un segretario molto aperto che vuole occupare lo spazio che c’è tra la Schlein e la Meloni e va bene così».
Cosa risponde a chi la definisce troppo filogovernativo?
«Porta a Porta è una trasmissione sicuramente istituzionale. Non siamo mai stati antigovernativi. Abbiamo dato sempre la parola a tutti quanti. Penso a un’espressione divertente con la quale mi definì Giuliano Ferrara: “equivicino”. Io di natura sono un moderato. Non l’ho mai nascosto. L’importante è rispettare gli altri. La forza di Porta a Porta nasce dal fatto che negli anni nessuno può dire di essere stato imbrogliato o travisato. Lo stesso vale per i libri».
Nella sua carriera c’è qualcosa che rivedrebbe?
«Non direi più che la Dc era il mio editore di riferimento, anche se era l’assoluta verità. Come il Psi lo era per la seconda rete e il Pci per la terza. Era vero ma... non si poteva dire. Che poi in Rai le nomine sono state sempre fatte dal partito di maggioranza relativa perché lo prevede la legge. L’importante è che la politica operi con dignità. Tra i giornalisti, la differenza si nota tra quelli che si sdraiano e chi invece punta a mantenere una certa rispettabilità».
E una cosa di cui va fiero?
«Tutto sommato, essere ancora qui... Perché all’inizio c’è stato chi ha provato a chiudere la trasmissione».
Sta per finire un 2024 speciale per lei in cui ha festeggiato gli 80 anni ed è diventato nonno...
«Mi sembrano due buoni traguardi! (Sorride) Ci tenevo tantissimo ad avere un nipote ed è nato una settimana fa. Si chiama Tommaso Stefano anche in ricordo di mio fratello che è stato un bravissimo giornalista, molto più serio di me... non è una battuta, lo sanno tutti. Che è morto però davvero troppo presto».