Tre dimensioni
Roberto Maroni, curiosità e innovazione: la sua eredità a due anni dall'addio
Due anni fa scompariva prematuramente, per la sua famiglia e per la politica italiana, Roberto Maroni, una figura importante nella vita pubblica di questo Paese e del suo movimento, la Lega, di cui fu uno dei fondatori e dei principali esponenti. Di lui vorrei qui ricordare tre dimensioni: lo sguardo sul mondo, la capacità di aprirsi e fare squadra, il tema del lavoro nell’agenda politica. Roberto Maroni, che pure condivideva il profondo scettiscismo leghista sull’Europa dei burocrati e su una costruzione barocca ed estremamente complessa che negava l’essenza della dimensione europea, i popoli, era un politico curioso e molto attento a quello che accadeva oltre le Alpi.
Fedele all’essenza della linea politica della Lega non ha mai amato le lunghe sessioni dei Consigli europei e quel cavillare su commi e risoluzioni mentre poneva tutto il suo peso politico sui rapporti tra i governi (e tra i ministri) per giungere a risultati concreti. Fu uno dei primi esponenti di governo a promuovere il semestre italiano di presidenza europeo con un giro di presentazione e di contatti in tutte le capitali, per capire cosa vi era dietro ogni Paese, ancora prima di condurre una agenda fondata su politiche del lavoro attive e flessibili, su maggiore attenzione alle politiche sociali (e in particolare alla disabilità), sulla necessità che fosse promossa anche una etica delle imprese.
Leggi anche: Pontida, Salvini dal palco: "Estremismo islamico, cancro da estirpare. Tasse? Paghino i banchieri"
Sua fu la caparbia ostinazione per fare della responsabilità sociale di impresa un tema da discussione europea, creando da zero un consenso unanime (grazie a lui fu fondata la Fondazione italiana sul tema, troppo presto abbandonata). Il suo essere ontologicamente leghista di rito ambrosiano –attento ai bisogni del territorio (e in quella stagione alla autonomia dei territori e dei popoli)- non lo rendeva impresentabile o inviso ai suoi colleghi europei bensì ne faceva una voce autorevole di cui tutti (e la stessa Commissione) dovevano sempre tenere conto e verso cui tutti si giravano prima di assumere decisioni.
Era un modo positivo ed assertivo di essere in Europa con una precisa identità sia pure distante e differente dalla tradizionale via diplomatica italiana (ed allora sì che faceva scandalo!!). Roberto Maroni era un politico a tutto tondo, aperto però agli stimoli che lo potevano fare crescere e che potevano sostenere la sua agenda politica. Il pragmatismo di questa attitudine fu testimoniata dal suo mescolare –al Ministero del Lavoro- esperti che nulla avevano a che fare con il leghismo e con la Lombardia con esponenti della tradizione amministrativa leghista.
Era profondamente convinto che solo allargando le conoscenze di coloro che erano seduti attorno ad un tavolo e facendo un lavoro di squadra sarebbe stato possibile toccare frontiere sconosciute, ampliare la base di consenso, governare con innovazione e senza che ciò significasse perdere la propria identità. Fu questa sua lungimiranza che permise di promuovere una stagione di riforme del lavoro attese da tempo. Governare non può significare rinchiudersi con i soliti fidati nelle supposte “stanze dei bottoni” perché questa scelta alla lunga fa perdere propulsione ed innovazione all’azione politica.
Come detto, la figura di Maroni è indissolubilmente legata ad una delle più importanti stagioni riformatrici in materia di lavoro che questo Paese abbia mai conosciuto. Spinto dal riformismo socialista e cattolico, Maroni, con grande consapevolezza e decisione, e con quel pragmatismo che lo contraddistingueva, decise di percorrere una via che avrebbe spezzato vecchie tradizioni e molti tabù. Anche dopo l’assassinio di Marco Biagi non si tirò mai indietro. Costruendo una ampia coalizione sociale, fondata su amicizia personale e su profonde convergenze politiche, spinse per cambiare un quadro normativo ormai superato e per offrire alle imprese e ai lavoratori nuove forme di protezione ma anche nuove possibilità di sviluppo. La primazia della contrattazione e delle relazioni sindacali, il cambiamento di paradigma dal tasso di disoccupazione al tasso di occupazione, il ruolo centrale della formazione (quella vera), un sistema di ammortizzatori sociali anche per le piccole imprese (il vero tessuto produttivo del Paese) sono solo alcuni dei risultati di quella stagione.
Di fronte a coloro che agitavano la piazza non si intimorì mai ma fece del lavoro il crinale distintivo tra riformatori e reazionari immobilisti. E tutti capirono. Oggi che il lavoro torna al centro del confronto politico, si deve comprendere come lo scontro è di nuovo tra quei due schieramenti, uno che non vuole ammettere la propria sconfitta e che oggi chiama alla rivolta di piazza, l’altro che fa del riformismo e del procedere a piccoli passi, ma con chiare convinzioni, il suo essere identitario. La lezione di Roberto Maroni anche qui ci deve guidare: il lavoro non va solo protetto ma va soprattutto promosso, perché l’obiettivo finale è aumentare il numero di occupati attraverso l’accrescimento delle competenze e dei talenti, non quello dei disoccupati organizzati. Roberto Maroni non si ricorderà come statista ma la sua figura di politico illuminato, riformatore e coraggioso non può essere dimenticata e, oggi, soprattutto il suo schieramento politico deve trarne molti insegnamenti, perché ne ha maledettamente bisogno.