Il fratello

Santo Versace: "Perché la morte di Gianni ha cambiato la storia d'Italia"

Costanza Cavalli

Un termine per definire chi ha perso un fratello o una sorella non esiste. Nemmeno esiste per definire un genitore che ha perso un figlio. La lingua “devèn, tremando, muta” e lascia indicibile l’impensabile. Per Santo Versace la morte di Gianni è stata contro natura tre volte: perché era suo fratello, perché era di due anni più giovane, perché il 15 luglio 1997, intorno alle 7 del mattino, venne ucciso. Due colpi di pistola davanti alla sua villa, a South Beach, Miami. «Mi arrivò la notizia e io risposi: “Gianni non è morto, Gianni è immortale”. Me ne resi conto solo quando arrivammo in ospedale e sfiorai la sua mano insanguinata».

Santo Versace compirà ottant’anni a dicembre, Gianni ne farebbe 78 qualche giorno prima. «Due anni di differenza che sembravano due generazioni – dice –, lui eterno bambino, io saggio posato», l’amministratore, un alter ego cerebrale, colui che trovò i finanziatori e che capì l’importanza di investire nell’immobiliare al centro di Milano.

All’epoca Versace era un impero da 800 milioni di dollari e 130 boutique nel mondo: il volto di Medusa era ovunque, dai bottoni degli abiti di alta moda ai fermagli delle borse, dalle tazze ai profumi per bambini fino al pavimento in mosaico della villa in Florida.
Medusa, vergine sacerdotessa del tempio di Atena che, violentata e trasformata senza colpa in Gorgone, perde bellezza e virtù per mano della sua stessa dea. Una “non donna” spogliata dei codici della femminilità: la gloria del corpo gliela rese Gianni Versace e il suo mito, come quello di Medusa, regge l’urto del tempo.

Nel libro Fratelli, una famiglia italiana (Rizzoli, pp.157, 18 euro), si chiede come sarebbe lei se suo fratello fosse ancora vivo. Noi come saremmo? 
«Per la mia famiglia fu una tragedia. Lo fu anche per l’azienda, per Milano, per l’economia italiana. Se ripenso a quei tempi, eravamo noi a dettare i tempi a Parigi. La settimana della moda milanese aveva due alfieri: Gianni apriva la Fashion Week, Giorgio Armani la chiudeva».
E poi avevate in cantiere la fusione con Gucci: già quotata, con Tom Ford direttore creativo e Domenico De Sole... 
«Sì, l’omicidio ha impedito la costituzione di un polo del lusso che avrebbe certamente cambiato la moda internazionale e il destino dell’Italia. Sarebbe stato solo un punto di partenza per acquisire altre realtà».
Quirino Conti ha scritto che con la morte di Gianni Versace il tempo dello Stilismo si è compiuto. È davvero finito? 
«No, lo Stilismo esiste, si è evoluto, si trasforma, d’altronde la moda rappresenta lo spirito del tempo. Se è vero che nasce un Gianni Versace ogni cinquant’anni, un altro grande dev’essere già nato».
Suo fratello ha cambiato la donna: come per Medusa, la metamorfosi avviene all’esterno e all’interno del corpo umano. Ha cambiato anche l’uomo, però. Come? 
«Direi che ha fatto di più per l’uomo che per la donna. Lo disse Richard Martin, il direttore dell’Istituto del Costume del Metropolitan di New York: in onore di Gianni riuscì a cambiare il calendario del museo e allestì una mostra subito dopo la sua morte».
Le ceneri di suo fratello sono a Milano, il funerale venne celebrato in Duomo e all’epoca qualcuno si mise di trasverso. Si spese Gabriele Albertini, che era stato appena eletto sindaco. Che cosa ne pensa della tutela dei diritti degli omosessuali oggi in Italia? 
«Siamo una nazione profondamente democratica, dove c’è libertà totale e rispetto per le diversità. Certamente gli estremisti guardano indietro, ma sono sparuti nostalgici».
Nel libro ripercorre la sua carriera politica e la delusione che le provocò. Nel 2008 venne eletto alla Camera col Pdl, nel 2011 passò al gruppo misto: scrive che “se le aziende fossero gestite come Camera e Senato fallirebbero tutte”... 
«Paghiamo le tasse perché i politici lavorino per i cittadini e invece passano il tempo a litigare. Se ciascuno pensasse al bene comune, anche il confronto tra maggioranza e opposizione, sarebbe fecondo. Solo così i cittadini torneranno a votare».
La Fondazione Santo Versace, che ha istituito con sua moglie Francesca De Stefano, si occupa dei poveri, delle ragazze madri, dei carcerati, delle donne vittime di violenza, dei rifugiati, insomma, degli ultimi. Il bene vero è quello con la “b” minuscola? 
«Io e mia moglie non abbiamo avuto figli: il nostro lascito è questa Fondazione, motivo per cui avrei voluto darle il nome di entrambi. L’8 dicembre scorso abbiamo battezzato Sarah, una nigeriana di 5 anni la cui madre era stata vittima della tratta, e Lyanna, che aveva 9 mesi ed è nata su un barcone. Con noi c’erano il ministro degli Esteri Antonio Tajani e la moglie, Brunella Orecchio. Diamo borse di studio, forniamo pasti, curiamo la salute mentale di giovani abbandonati dalle famiglie. E con il Progetto Metamorfosi siamo arrivati alla Scala: l’Orchestra del mare suona strumenti ad arco realizzati dai carcerati con il legno delle barche dei migranti».
E poi c’è Altagamma, il comitato dei marchi di lusso italiani: la promozione del Made in Italy passa da qui? 
«In Italia dicono che è impossibile fare rete, abbiamo dimostrato che è falso. Partiti in 9 nel 1992, oggi siamo 120 soci che, design al turismo, dall’alimentare alla moda, fatturano più di 150 miliardi di euro. Nel Dopoguerra l’Italia era distrutta, gli italiani analfabeti e contadini, eppure ce l’abbiamo fatta. Con tutti i problemi burocratici, di imposizione fiscale, della giustizia, riusciamo ad essere la seconda manifattura d’Europa. Dobbiamo credere nel nostro Paese».