Golpe

Berlusconi, per il cardinale non era un eversore

Francesco Damato

Imperdibile l’intervista nella quale il cardinale Camillo Ruini, 93 anni compiuti a febbraio, ha raccontato al Corriere della Sera passaggi clamorosi della sua lunga esperienza- dal 1991 al 2007- alla presidenza della conferenza episcopale italiana, a cavallo fra la prima e la seconda Repubblica. Toccò a lui, per esempio, raccogliere la richiesta del laicissimo presidente del Senato Giovanni Spadolini di dissuadere gli amici democristiani, che nel 1981 lo avevano mandato a Palazzo Chigi, tre anni prima che vi arrivasse Bettino Craxi, dalla decisione di rinunciare al fortunato, secondo lui, nome del loro partito per tornare a quello sturziano, ormai troppo lontano, di Partito Popolare Italiano. Il povero Ruini, che era d’accordo con la lettura di uno storico peraltro di grandissima qualità come il suo interlocutore, ci provò ma inutilmente, neppure pronosticando a Mino Martinazzoli, l’ultimo segretario della Dc, non più del 15 per cento dei voti, uno in meno di quello che poi egli, dimettendosi immediatamente, avrebbe preso nelle urne del 1994. I cui risultati portarono a sorpresa il politico esordiente Silvio Berlusconi direttamente alla guida del governo, sorpassando anche la “gioiosa macchina da guerra” allestita a sinistra da Achille Occhetto.

Della vittoria di Berlusconi il cardinale Ruini non so se fosse rimasto sorpreso pure lui, come Occhetto e Martinazzoli allora su fronti diversi, non ancora assemblati, ma di certo non allarmato. «Penso che Berlusconi -ha detto l’altissimo prelato a Francesco Verderami- abbia mostrato i suoi pregi e i suoi limiti, come tutti gli altri politici, ma che non abbia avuto in alcun modo fini eversivi. I pericoli perla Repubblica semmai erano altri». Come lo sono, penso, anche oggi che la sinistra sta ripetendo contro il governo Meloni la campagna condotta a suo tempo contro chi osò batterla all’alba della seconda Repubblica. Sorpreso o non sorpreso che fosse stato dalla vittoria del Cavaliere, il cardinale Ruini dovette rimanere esterrefatto nel sentirsi invitato dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a prodigarsi dalla sua importante postazione episcopale a far cadere il primo governo di centrodestra. Invitato dall’intervistatore a dire se davvero nell’estate del 1994, come raccontato in un libro edito dallo stesso Corriere della Sera, Scalfaro lo avesse invitato a cena con il cardinale Angelo Sodano e monsignor Jean Louis Tauran per chiedere loro di essere «aiutato a far cadere il governo Berlusconi» raccogliendone un «silenzio imbarazzato», Ruini ha testualmente risposto: «Effettivamente andò così. La nostra decisione di opporci a quella che ci appariva come una manovra - al di là della buona fede di Scalfaro - fu unanime». Manovra tentata da Scalfaro anche con Umberto Rossi, come raccontato dallo stesso leader leghista allora ancora alleato di Berlusconi, e riuscita. In effetti Bossi provocò la crisi entro l’anno, protetto dalla garanzia di Scalfar che non ci sarebbero state elezioni rapidamente anticipate.

 

 

«E pensare- ha raccontato ancora impietosamente Ruini- che Scalfaro era stato per me un grande amico. Rammento quando De Mita nel 1987 gli aveva offerto di diventare presidente del Consiglio, in opposizione a Craxi e con la benevolenza del Pci. Scalfaro allora era venuto da me e mi aveva detto che avrebbe rifiutato. “Fa bene”, avevo risposto. E infatti a Palazzo Chigi sarebbe poi andato Amintore Fanfani» per gestire le elezioni anticipate fortemente volute dall’allora segretario democristiano. Fu quel rifiuto che cinque anni dopo procurò a Scalfaro, ancora fresco di elezione a presidente della Camera, l’appoggio fiduciario di Craxi alla sua elezione a capo dello Stato nell’emergenza politica e istituzionale creatasi con l’attentato mafioso di Capaci a Giovanni Falcone. Ma, una volta al Quirinale, oltre a negargli l’incarico di presidente del Consiglio, Scalfaro non rispose alle lettere con le quali Craxi gli segnalava la “severità senza uguali” - per ripetere un’espressione di Giorgio Napolitano dopo molti anni al Quirinale- praticatagli dalla magistratura di “Mani pulite».