L'intervista

I miei primi 100 anni, Renato Quaglia: "Al fronte in giacca e cravatta, guai a toccarmi i baffi"

Alessandro Dell'Orto

Renato Quaglia ha 106 anni ed è il più vecchio Carabiniere Reale d’Italia. È nato quando non era ancora finita la prima guerra mondiale e poi ha combattuto la seconda al fronte per cinque anni, finendo per 25 mesi in un campo di lavoro tedesco. Ha incontrato Mussolini e il re Vittorio Emanuele III, ha collezionato 18 medaglie ed è Cavaliere al merito della Repubblica, ha schivato l’influenza spagnola (la pandemia è scoppiata poche settimane prima che nascesse) e ha sconfitto il Covid. Baffetto ben curato e cravatta elegante, il maresciallo capo Renato Quaglia («L’Arma è stata ed è la mia seconda famiglia») è in grande forma: nessun medicinale, niente occhiali, memoria prodigiosa: «Io non mi sento vecchio, ho solo molti anni».

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Maresciallo Renato Quaglia, bella questa macchina per scrivere. 
«È una “Lettera 32”, la uso per comporre poesie in dialetto monferrino. E ho scritto anche un libro: “Vicissitudini di un Carabiniere Reale”».
La sua camera è tappezzata di foto e riconoscimenti. 
«Vivo qui all’Opera Pia Garelli da quasi due anni, tengo tutto in questa stanza».
Perché sorride? 
«Mi avevano dato una camera piccola e l’ho fatta cambiare. Questa la considero il mio pied-à-terre e ho rinunciato a tutti i servizi: il letto me lo rifaccio da solo, l’intimo lo lavo in bagno. Da buon soldato».
È sistemato bene. 
«Beh, qui sono bravissimi, ma a casa si sta meglio. È stata mia figlia Zenaide a insistere per farmi trasferire: vivevo solo e aveva paura che mi succedesse qualcosa di notte».
Come passa le giornate? 
«Leggo molto, soprattutto libri di storia. Suonavo il violino ma l’artrite mi blocca, ero appassionato di pittura e giardinaggio, ma qui è impossibile.
Sa cosa mi pesa? La noia. Per fortuna esco tutti i giorni».
Dove va? 
«In paese, a piedi, da solo. Anche se le gambe ora fanno un po’ cilecca: ci impiego il doppio del tempo».
È sempre così elegante? 
«Deformazione professionale: senza cravatta non mi considero vestito, pensi che la indossavo anche al fronte. Appena sveglio, poi, devo radermi altrimenti non mi sento a posto».
Complimenti per i baffetti. Li ha sempre portati? 
«Da quando avevo 20 anni. A proposito, le posso raccontare di quella volta al campo di lavoro in Germania?».
Prego. 
«Sto antipatico a un capo tedesco che per prendermi in giro mi chiama Amedeo Nazzari, come l’attore. Un giorno decide ti far tagliare a tutti i baffi, secondo lui simbolo della fedeltà a Vittorio Emanuele III. Mi dice: “Mussolini hat keinen moustache, Mussolini non ha i baffi”. Gli rispondo: “Aber Hitler hat einen moustache, ma Hitler li ha”. E lui: “Ja, ja, ja”».
Scusi, ma parla tedesco? 
«L’ho imparato in guerra, come il greco, russo e francese».
Li ha tagliati poi i baffi? 
«Assolutamente no».
Maresciallo, già che stiamo ricordando il passato, torniamo all’inizio. Lei nasce il 25 aprile 1918 a Cerrina Monferrato. 
«Primo di sei figli, frutto di una licenza di papà Domenico Stefano che è al fronte. Mamma Maria Letizia ci tiene alla cultura e ci fa scuola. Imparo a scrivere, leggere e suonare».
Famiglia di musicisti? 
«Nonno suona il basso tuba, papà fisarmonica e trombone. Io scelgo il violino, scandalizzando il nonno».
A 19 anni decide di diventare carabiniere. 
«L’8 settembre 1937, alle ore 11, entro nella caserma Cernaia di Torino come aspirante allievo carabiniere e faccio sevizio nella banda musicale: suono il tamburo rullante».
Dopo un anno viene promosso e diventa Carabiniere Reale a tutti gli effetti. 
«Ma vengo trattenuto alla Cernaia per quattro mesi perché c’è Mussolini in visita a Torino, siamo di scorta per l’ordine pubblico».
Ha visto il Duce da vicino? 
«Certo. Fisicamente un gigante, di personalità».
Scusi, ma lei... 
«Le spiego. A 6 anni mi mettono una camicia nera e mi insegnano a marciare. Poi divento Balilla, a 14 anni entro nell’Avanguardia giovanile fascista e a 18 sono un Giovane fascista. Per quei tempi è normale, non una scelta. E poi...».
Dica. 
«Il fascismo ha fatto anche cose bellissime, come istituire le pensioni di vecchiaia e le assicurazioni contro gli infortuni, i sanatori, le colonie estive per i figli di operai. Certo, purtroppo poi Mussolini ha rovinato tutto andando dietro a Hitler».
Lei si considera fascista? 
«No, a me la politica non interessa. Dico solo che i violenti c’erano da tutte le parti. E andrebbero rispettati anche i morti fascisti perché comunque combattevano per la patria».
Maresciallo, altri personaggi storici incontrati? 
«Il re Vittorio Emanuele III, un piccoletto alto così: aveva fatto abbassare il limite della statura per potersi arruolare.Lo chiamavamo “sciaboletta” perché gli avevano costruito un’arma più corta che non sbattesse sul terreno».
Torniamo a lei. Scoppia la guerra e a fine dicembre 1940 la mandano in Grecia, aggregato alla Divisone alpina Julia. 
«Sbarco a Durazzo e il mattino dopo vengo portato al fronte. A Capodanno ricevo il battesimo del fuoco».
Raccontiamo. 
«È il mio primo combattimento. Iniziano a sparare e un colpo di mortaio ammazza subito il caposquadra. Il capitano mi ordina: “Prendi il comando”. Lo guardo sorpreso: “Sono giovane, ci sono commilitoni più anziani”. Lui estrae la pistola e me la punta: “Se sei un vigliacco ti ammazzo io”».  
E che fa? 
«Mi metto alla mitraglia e sparo la mia prima raffica».
E uccide tanti nemici? 
«Non so, ma spero nessuno. Lì i greci sono poveri cristi, i cittadini ci rispettano. Io non bevo e non fumo e distribuisco i miei viveri ai bisognosi».
Il combattimento che non dimenticherà mai? 
«Alcuni soldati albanesi disertano e si danno alla macchia come partigiani comunisti. Noi, avendo l’unità di corona, li cerchiamo. Guadiamo un fiume, ci accorgiamo che sono già sulla montagna: scoppia un conflitto a fuoco. Combattiamo dal mattino alle cinque del pomeriggio e ci lasciamo tre morti».
Un ricordo piacevole? 
«Alle 21 scatta il coprifuoco e i greci devono ritirarsi. Però sono quasi tutti pescatori e la pesca di giorno non rende. Allora noi carabinieri italiani, anziché multarli, decidiamo di aiutarli a andiamo a pescare per loro».
Fisicamente? 
«Sì e quando la guardia frontiera italiana, con le mitragliatrici puntate, sente rumori sospetti in mare, ci dà il chi va là. Noi urliamo: “Siamo carabinieri in perlustrazione”. Loro: “Parola d’ordine?”. “Savoia”. “Controparola?”. “Roma”. E peschiamo indisturbati. La mattina seguente, poi, dividiamo il pesce con i greci, senza venderlo».
Il 30 agosto 1943 la mandano a Lubiana. 
«Sono contento perché là c’è mio fratello, anche lui carabiniere. Ma preoccupato perché la zona è pericolosa».
Per le foibe? 
«I comunisti uccidono i carabinieri italiani, poi legano ai loro cadaveri altri commilitoni vivi e li sotterrano insieme nelle fosse comuni».
A Lubiana non ci arriva. 
«L’8 settembre a Nova Gradisca, in Croazia, cadiamo in un’imboscata: anziché andare in un binario morto il treno viene fatto entrare in stazione dove ci attendono i tedeschi con i mitra spianati. Diventiamo prigionieri. Ci portano in Polonia, ci disinfettano per 15 giorni e alla fine ci selezionano come animali per decidere dove mandarci a lavorare».
Lei è destinato al campo tedesco di Strauberg, vicino a Brandeburgo. 
«In una fabbrica dove si fanno bossoli per le mitragliere antiaeree. Noi non siamo prigionieri di guerra, ma internati militari. Guardi, ho una decorazione che dice “chiuso nei campi di concentramento nazista rifiutava la libertà per non collaborare con il tedesco invasore”».
Vita infernale? 
«Poco cibo, tanto freddo. E non sono più Quaglia Renato, ma solo un numero: 270».
Dopo 18 mesi arrivano gli alleati e aprono il campo. 
«I russi però dicono: “Dobbiamo vincere la guerra, non siamo in condizione di darvi da mangiare, arrangiatevi”».
E vi trasferiscono nel campo di raccolta Luchenwalde. 
«Ci restiamo sei mesi e ci troviamo bene: il maggiore russo ha simpatia per i carabinieri italiani, ci arma e ci permette di andare in città».
Finalmente, il rimpatrio. 
«Veniamo portati al Brennero, senza cibo. Per fortuna ci ospita un centro di raccolta della Città del Vaticano, che poi mi conduce a Casale».
Quasi a casa. 
«Mancano 30 km, che mi faccio a piedi con lo zaino in spalla. Quando sono a pochi metri dal paese sento il campanello di una bici: è Maria, la mia futura moglie».
Eravate già fidanzati? 
«Molto amici. Poi il matrimonio e la nascita di Zenaide».
Dopo la guerra che fa? 
«Al referendum vince la Repubblica e mi chiedono di giurare. Rifiuto: “Ho già giurato per il re”. Cosi vengo congedato dall’Arma».
E resta disoccupato. 
«Suono il violino in un’orchestra e mi diverto, ma non si guadagna abbastanza e capisco che la cosa migliore è tornare carabiniere».
Ma prima deve giurare fedeltà alla Repubblica. 
«Lo faccio. Però solo con la biro, non con il cuore».
Maresciallo, domanda secca: ci fosse un referendum oggi, cosa sceglierebbe? 
«Monarchia. La repubblica mi sembra vada molto male».
Ultime domande. 1) Quando è andato in pensione? 
«A 41 anni, come invalido di guerra per la pleurite».
2) Rapporto con Dio? 
«Sono credente, ma relativamente praticante».
3) Paura della morte? 
«No, temo la sofferenza: spero di morire nel sonno.
4) Come vede i giovani? 
«Non sanno essere giovani. Hanno tutto, ma si annoiano».
Lei ha 106 anni, ma quanti se ne sente? 
«Come spensieratezza 20».
Ultima: come ha passato il periodo del Covid? 
«Mi sono ammalato, mi hanno salvato delle flebo. Non ho mai fatto vaccini e non ne faccio nemmeno l’antinfluenzale. Sto bene e non prendo nessuna pillola, nemmeno quella della pressione».
Ultimissima. Quanti anni vuole vivere ancora? 
«Guardi, posso morire anche domani o tra dieci anni, l’importante è restare in salute e godersi la vita. Carpe diem».