L'intervista
I miei primi 100 anni: Enrico Vanzini, "nel lager nazista ho perso 56 chili ma non la dignità"
Enrico Vanzini ha 101 anni, ma per sette mesi è stato solo un numero. Centoventitremilatrecentoquarantatré. Nel campo di concentramento di Dachau dove è rimasto in condizioni disumane da ottobre 1944 a maggio 1945- gli hanno tolto tutto: libertà, giovinezza e perfino nome e cognome. Enrico, anzi, il numero 123343, negli ultimi quindici giorni di prigionia è stato costretto a lavorare per i nazisti nel “Sonderkommando”, unità di internati destinata a sostituire le SS per smaltire i cadaveri nei forni crematori. Un inferno. Nell’orrore di Dachau ha lottato contro la fame, i soprusi, la malattia, ma non ha mai mollato e si è salvato. Ora vive nella Casa di Riposo Villa Altichiero di Padova e si racconta: è l’ultimo “Sonderkommando” italiano ancora in vita.
I miei primi 100 anni: Walter Visentin
Enrico Vanzini, quante decorazioni al petto.
«Questa è la Medaglia d’Onore che mi ha consegnato Giorgio Napolitano, ex Presidente della Repubblica, nel 2013. La seconda è di quando sono diventato Cavaliere della Repubblica nel 2019 e la terza è dell’associazione ex internati di Fagnano, paese di origine in provincia di Varese».
La coccarda azzurra?
«È per il record mondiale del raduno di centenari: eravamo in 70! Le spille ricordano gli incontri con gli studenti».
Già, perché lei, da anni, racconta l’Olocausto e la sua vicenda nelle scuole.
«Sono stato in quasi 100 istituti, soprattutto medie e superiori. I giovani sono sempre interessati alla mia storia: c’è chi chiede l’autografo, chi mi abbraccia. Ora però, da quando sono nella casa di riposo, mi sposto molto meno».
E qui quale è la sua attività preferita?
«Lo sport».
In che senso?
«Leggo la Gazzetta tutti i giorni per informarmi dell’Inter».
È un grande tifoso?
«Da sempre. Per i miei 100 anni il club mi ha regalato una maglietta personalizzata».
Ha festeggiato lo scudetto?
«Mi sarebbe piaciuto andare a S. Siro, ma non sono riuscito. A dir la verità sa che da giovane ero un calciatore pure io?».
Davvero? Allora torniamo indietro nel tempo così ci racconta. Nasce il 18 novembre 1922 a Fagnano Olona.
«Bambino sempre in movimento, all’oratorio gioco a bocce e soprattutto a calcio».
Ruolo?
«Portiere, mi piace stare tra i pali. Da ragazzino vado spesso a Busto Arsizio, in bici, per vedere gli allenamenti della Pro Patria che in quel periodo è in serie A. Vengo preso tra i giovani, ma a 18 anni, quando posso passare in prima squadra, mi chiamano alle armi. Devo andare in Russia, ma...».
Che succede?
«Mi salvano un attacco di appendicite e 15 giorni di ospedale: gli altri partono e così vengo dirottato in Grecia».
Quanto ci resta?
«Un anno, senza mai sparare un colpo. Dopo l’8 settembre, però, mi catturano i tedeschi e mi ritrovo con altri 1000 prigionieri sui carri bestiame, destinazione Germania».
Condizioni difficili?
«Disumane. Nel mio convoglio siamo in 60, tutti al buio, senza cibo nè acqua, costretti a fare i bisogni dove si dorme».
Viaggio lungo?
«Più di venti giorni. Ogni tanto ci si ferma per i bombardamenti e si aspettano ore su un binario morto, poi si torna indietro e si riparte».
Pian piano arrivate a Monaco di Baviera.
«È l’11 ottobre 1943, ci dividono e mi caricano su un camion per Ingolstadt, 80 km a nord di Monaco, dove lavoro in una fabbrica che costruisce i telai dei carri armati: turni dalle 19 alle 7 di mattino. Quasi un anno così finché...».
La spostano?
«No, riesco a scappare. Durante un bombardamento io e altri due italiani ci nascondiamo sotto un ponticello, poi ci accorgiamo che la fabbrica è distrutta e fuggiamo».
A piedi?
«Camminiamo di notte per non essere visti dalla Gestapo. Ci sfamiamo con carote, patate crude perché accendere il fuoco sarebbe troppo rischioso, e crauti che troviamo nei campi, beviamo l’acqua di un piccolo rio che costeggia la strada. Dopo 15 giorni, però, siamo stremati. Una notte vedo un bagliore, sembra una capanna di contadini. Ci avviciniamo, sentiamo bisbigliare, esce una ragazza che avrà 25 anni. Mi faccio coraggio e la chiamo in tedesco: “Fraulein, signorina”. Si volta: “Siete italiani? Che fate qui?”. Rispondo: “Poche discussioni, abbiamo fame e sete”. “Aspettate, lo dico a mio nonno”».
Grande fortuna.
«Insomma... Dopo cinque minuti fa cenno di entrare e superata la porta troviamo due soldati tedeschi con i mitra spianati che ci buttano a terra. Le urlo: “Vergognati, un’italiana che tradisce i suoi connazionali”. Lei: “Lo faccio per soldi».
Come finisce?
«Ci consegnano alle SS e finiamo al campo di concentramento di Buchenwald. Dopo l’interrogatorio il comandante sentenzia: “Alle quattro sarete fucilati per sabotaggio”. Arrivata l’ora, ci troviamo davanti al plotone di esecuzione, dieci soldati col mitra. Siamo legati, è tutto pronto quando da lontano si sente urlare, è il comandante: “Non sparate, hanno raccontato la verità”. E la pena di morte viene commutata in internamento».
Lei va a Dachau.
«L’impatto è devastante: scheletri umani in marcia, cadaveri ovunque, filo spinato elettrificato. Ci lavano con acqua ghiacciata e disinfettante, poi ci consegnano gli abiti, usati: giacca a righe bianche e celesti, pantaloni che mi arrivano al ginocchio, niente intimo, berretto e zoccoli troppo grandi che perdo ad ogni passo. È la divisa per tutte le stagioni. Poi mi tatuano sul braccio il numero 123343. Centoventitremilatrecentoquarantatré. La grande difficoltà è impararlo in tedesco: se lo sbagli sono botte».
Ce l’ha ancora?
«No, con il tempo e pomate specifiche è andato via».
Stato d’animo?
«Terrore, disperazione. Capisco che da qui non si esce vivi. Mi assegnano la baracca numero 8, dove si dorme ammassati in letti a castello a 4 piani e anche per terra, e un lavoro alla stazione di Monaco».
Cibo?
«Una sbobba verdastra immangiabile. Di sera una fettina di pane nero, trasparente».
Un ricordo che non dimenticherà mai?
«Una mattina mi sveglio e mi accorgo che ho dormito tutta notte abbracciato a un poveretto, che nel sonno era morto. E poi la storia del pane».
Cioè?
«Mi portano a lavorare in una fattoria: siamo in fila indiana, scortati, e io sono tra gli ultimi. Si avvicina un’anziana tedesca che ricorda mia madre e chiede se sono italiano. Tira fuori da una tasca un pezzo di pane nero e me lo offre. Dico di no, le faccio capire che se ci vedono sono guai. Alza le spalle e me lo dà, ma una SS se ne accorge. Mentre nascondo il pane nel berretto sento una raffica di mitra. Uccisa. Quel pezzo di pane l’ho conservato senza mai mangiarlo, anche nei momenti di grande fame: sarebbe stato come addentare il cuore di quella poveretta. Tornato a casa l’ho dato a mia madre, che l’ha portato in chiesa come dono di Dio».
Negli ultimi 15 giorni viene costretto a lavorare nel “Sonderkommando”.
«Ci obbligano a bruciare i cadaveri nei forni crematori. Una mattina mi portano in un edificio in cui non ero mai stato, siamo io e un francese. Quando entriamo ci troviamo all’inferno: forni accesi, caldo insopportabile, guardie con i mitra. Ci indicano dei corpi, li prendiamo a mani nude, li carichiamo sulla grata e poi, con una leva, li facciamo scivolare tra le fiamme. In un attimo spariscono. Ogni tanto i forni, che sono a gas, vengono spenti per la pulizia: con una pala si tolgono ossa e cenere».
Enrico, chiuda gli occhi: che odore ricorda?
«Carne bruciata che non permette di respirare. Da vomito».
Rumore?
«Lo zzzzzz delle ventole di raffreddamento».
Quanti corpi bruciate?
«A volte anche 100 al giorno, in tutto ne avrò carbonizzati 1000. In quelle settimane capisco che non avrò speranze: chi lavora lì viene ucciso per impedire che possa raccontare l’orrore. Un po’ come per gli esperimenti sulle cavie umane».
Cioè?
«Una volta, recuperando dei corpi in un edificio tenuto nascosto, riesco a vedere attraverso un montacarichi inceppato: sotto ci sono soldati in camice bianco e persone squartate».
Lei, nel libro “L’ultimo Sonderkomando italiano”, scrive anche delle camere a gas. Eppure c’è chi sostiene che a Dachau non furono mai usate.
«Ho visto i morti soffocati, li ho staccati a fatica gli uni dagli altri. Non capisco perché si debba negare, anche altri testi lo confermano. Ho sofferto e sono stato massacrato per sette mesi in un campo di concentramento, perché avrei dovuto inventare qualcosa?».
Il 29 aprile 1945 gli americani liberano Dachau.
«Sono stremato, non sto in piedi e cammino sulle ginocchia. Ma è la fine dell’incubo».
Come è resistito?
«Grazie alla fede e alla forza di volontà, al desiderio di rivedere i miei genitori».
Lo farà dopo due mesi.
«Arrivo a casa, barba e capelli lunghi. Papà piange, mamma mi fissa: “Sei davvero mio figlio?”. Non mi riconosce: ero partito che pesavo 86 kg, sono tornato che ne peso 30».
Enrico, dopo che fa?
«Mi sposo con Romilda, nascono Ildo e Rodolfo. Mi trasferisco a Padova e faccio l’autista di camion fino a 60 anni».
Senza mai raccontare a nessuno di Dachau.
«Troppo dolore. L’ho fatto la prima volta nel 2005, casualmente, parlandone con un’infermiera. Da lì non mi sono più fermato». Vanzini, ultime domande veloci. 1) Musica preferita?
«Quella del pianoforte, che ogni tanto suono ancora pur a fatica».
2) La tv la guarda?
«Solo programmi sportivi».
3) Porta ancora molte conseguenze fisiche?
«Dolori alla schiena e alle ginocchia. Le mani sono deformate dal gelo e dalle botte: sono sempre fredde e la sinistra non la muovo più».
4) Paura della morte?
«Dopo essere stato a un passo dalla fucilazione, no».
5) È tornato a Dachau?
«Una decina di anni dopo essere stato liberato, poi nel 1976 con i miei figli - ma senza raccontare nulla - e recentemente con un gruppo di studenti».
Ultima. Se si trovasse di fronte ora una delle SS del campo di concentramento che farebbe?
«Nulla. Non provo senso di vendetta: non agivano con la loro testa, ma condizionati da quel pazzo esaltato di Hitler».