L'intervista

I miei primi 100 anni: Walter Visentin, "con grappa e scacchi sono arrivato a 104"

Alessandro Dell'Orto

Walter ricorda ogni singola data e ogni dannato giorno, manca solo che ti dica se era un lunedì o un martedì. Walter ti spia gli appunti e quando gli chiedi come mai non mette gli occhiali sorride: nonli ha perché ci vede ancora bene sia da lontano che da vicino.Walter racconta aneddoti e ogni tanto, a sorpresa, si interrompe e ti fa una domanda a bruciapelo: se non sai rispondere ti cazzia bonariamente. Walter sa di medicina, politica, economia, ovviamene storia, geografia, e di qualsiasi diavoleria si stia parlando. Walter sa ridere di se stesso e far ridere, ma sa pure far riflettere perché non è mai banale. Walter non conosce pause, ha una battuta per ogni argomento ed è instancabile. Un portento. Ah, Walter (Visentin) è nato il 13 agosto del 1920 e tra poco compirà 104 anni.
 

I miei primi 100 anni: Enrico Vanzini

 

Walter Visentin, dove era finito? L’hanno cercata ovunque: camera, palestra, chiesa, sala tv. D’accordo che la Residenza Santa Chiara dove vive è una struttura immensa, ma sembrava introvabile. 
«Ciò, mi ero perso via al secondo piano dove si fa meditazione. Mi piace tanto. Si smette di pensare e ci si dimentica di qualsiasi cosa. È rilassante».
Quindi lei... 
«No, stop, fermati. Per cortesia diamoci del tu: ho imparato a farlo dagli inglesi. A proposito, sai che ho percorso 4500 km in Inghilterra e...».
Va bene Walter, grazie, ma di questo magari ne parliamo dopo. Vero che per trovarti mentre meditavi ti hanno chiamato al cellulare? 
«Eccolo, è sempre con me. Devo solo stare attento perché questo bottone fa suonare un allarme».
Quindi sei tecnologico, alla faccia dei 103 anni. 
«In camera ho pure un vecchio computer che uso per giocare a scacchi. E sai perché mi piacciono queste sfide?».
No. 
«Il segreto della vita sta in quattro verbi: guardare, osservare, scrutare, dedurre. Chiedersi sempre il perché delle cose porta ad acquisire nuove informazioni e aiuta il cervello a restare allenato. Tu Alessandro, per esempio, sai perché sei qui?». 
No, in che senso? 
«Ciò, sei giornalista e non ti fai queste domande? Hai guardato, osservato, scrutato, dedotto e sei arrivato a me. È la vita di tutti noi. E sai perché sei nato?».
No, ma in realtà le domande dovrei farle io. 
«Rispondi a questa prima. Non lo sai? Semplice, per mantenere la specie».
Walter, torniamo a te: come è la giornata tipo? 
«Appena sveglio mi alleno con i pesi: 2 kg ogni braccio. Il venerdì invece vado in palestra: 20 minuti di bicicletta. Ciò, ora mi vedi sulla caréga, la sedia a rotelle, perché ho un problema all’anca, ma conto di tornare a camminare».
Leggi molto? 
«Solo il “Corriere della Sera”, ma non lo compro. Me lo lascia una signora in portineria».
Cosa ti appassiona di più: cronaca, politica, sport? 
«L’ultima pagina, quella del sudoku. Quello “diabolico” lo risolvo, quello “difficile” non sempre: insolito no? Dovrebbe essere il contrario».
E il cibo? Mangi tanto? 
«Nell’ultimo mese ho diminuito, perché ho un problema di circolazione. Però non salto mai i pranzi, non faccio come quei cretini che digiunano e poi stanno male».
Ovviamente niente alcolici. Walter, perché quel sorriso? 
«Cosa dici? Dopo cena ogni sera bevo un caffè alla macchinetta e poi mi faccio un bicerìn di grappa. Ma non scriverlo, forse è meglio che il direttore non lo sappia...».
Capirà, dai... È veneto anche lui. 
«Esatto. Io sono Visentin».
Sì, Walter Visentin.  
«Ciò, ma cosa hai capito? Intendo che sono di Vicenza, vicentino. Di nome e di fatto».
Buona questa. A proposito, torniamo indietro nel tempo: nasci proprio a Vicenza il 13 agosto 1920. 
«Bambino non particolarmente vivace, ma curioso da matti. Voglio sempre capire come si generano le cose e i problemi. Per poi risolverli».
Scuole? 
«Elementari dai preti, poi l’avviamento ma le insegnanti non mi convincono e mi ribello. Bocciato. A 13 anni e mezzo inizio a lavorare».
Mestiere? 
«Tipografo e ho il compito più bello: tramutare gli scritti a mano in stampa. Ma capita una cosa strana: molti colleghi muoiono giovani, intorno ai 40 anni. La solita curiosità mi porta a indagare e scopro che la causa è il veleno nel sangue. Ci penso e capisco: è colpa dell’abitudine di leccarsi le dita per prendere e sistemare i quadratini con le lettere di piombo. E allora tiè».
Ops Walter, cosa fai? Il gesto dell’ombrello? 
«Certo. Tiè, mi licenzio subito, mica voglio morire».
E trovi un altro lavoro? 
«Per due mesi prendo una specie di disoccupazione grazie alle leggi di Mussolini: ogni venerdì vado a ritirare i schei senza far niente. Poi mi occupo di una rassegna stampa per l’Ufficio Tecnico Imposte di Fabbricazione e a 16 anni ricomincio a studiare: tre anni in quattro mesi con una maestra a casa. Sette ore di lavoro e sette di studio, esame passato con la media del 7».
Urca che vita intensa: con tutti questi impegno niente tempo libero... 
«Come no? Riesco anche a fare arrampicate».
Addirittura? 
«Conosco casualmente Severino Casara, famoso alpinista. Mi vede in azione e dice: “Tu sei nato per la montagna”. E mi convince a tentare insieme l’arrampicata dello spigolo Nordovest del monte Pelmetto, 850 metri di III e IV grado, con un tratto di V. Mi procura scarpe adatte, facciamo qualche allenamento e il 13 luglio 1936 arriva il grande giorno».
Come va? 
«I giornali scrivono che tutti quelli che ci hanno provato si sono sempre fermati a metà. Arriviamo a quel punto e ci blocchiamo anche noi. Impossibile proseguire. Casara fuma una sigaretta e dice: “G’ha da tornar indrio come gli altri”. Gli rispondo: “Scusa, accendi un’altra sigaretta e butta il fumo in alto”».
Altra curiosità, altra intuizione? 
«Esatto. Ciò, il fumo si ferma verso la parete e poi, improvvisamente, esce dal tetto. Indico la direzione: “Lì c’è un buco, proviamoci”. Con il martello tolgo dei sassi, piano piano apriamo uno spiraglio che allarghiamo con le mani e i gomiti. E riusciamo a passare».
Impresa storica, tanto che quella via ora porta ancora i vostri nomi: Via Casara-Visentin. Quattro anni dopo invece, un po’, a sorpresa, ti chiamano per la guerra. 
«La classe del 1919 è decimata dal primo conflitto così anticipano noi del 1920. Vado in Jugoslavia l’1 febbraio 1940, bersagliere motociclista, ho il compito di riparare stazioni radio e allacciare le luci».
Mai rischiato la vita? 
«Siamo in fila, io alla guida di una Guzzi a 4 tempi. Arriva l’ordine: “Mettete in moto che si parte”. Ciò, faccio per accendere ma niente, è inceppata. Chino la testa per controllare il carburatore e pum, sento un rumore sul casco, le piume da bersagliere volano via. È un proiettile: fossi rimasto dritto mi avrebbe colpito in pieno».
A proposito di motori, una curiosità: fino a quando hai guidato? 
«A 98 anni ero ancora al volante. Poi volevano rinnovarmi la patente fino ai 100 ma ho rifiutato e l’ho restituita: troppa confusione nelle strade».
Torniamo alla guerra. Quando il rientro a casa? 
«In tre anni mai una licenza, finché il colonnello mi concede 15 giorni. È il 1943, ricordo anche la data precisa: 8 settembre. Torno a Vicenza, mi riposo, ma quando devo ripartire mi viene la febbre a 39, dicono che ho avuto la pleurite e non mi fanno più tornare in Croazia. Per me la guerra finisce lì».
Walter, non abbiamo parlato di ragazze. In quel periodo sei fidanzato? Come mai questo sorriso furbo? 
«Ciò, c’è tutta la storia di Silvana da raccontare».
Chi è Silvana? 
«La mia madrina di guerra».
Spieghiamo. Le madrine sono un’istituzione del primo conflitto mondiale, no? 
«I soldati con papà e mamma ignoranti, che non sanno scrivere, tengono contatti epistolari con ragazze che li confortano, con lettere e pacchi, mentre sono al fronte. A un commilitone di Trieste ne viene assegnata una, ma non la vuole: “Walter, io sono fidanzato con una bea tosa. Prendila tu questa lettera”. La apro e iniziamo a scriverci».
Spesso? 
«In tutto 256 lettere».
Senza vedervi. 
«Solo qualche fotografia. Alessandro, mi devo interrompere che mi squilla il cellulare. “Pronto? Si, sto facendo un’intervista, chiamami dopo”. Scusa, era mia figlia».
Ci mancherebbe. Continuiamo. Quando l’incontro con Silvana? 
«Nel 1941, passando da Trieste, cerco l’indirizzo e mi presento a casa sua. Lei è uscita, ma i suoi genitori mi invitano a pranzo. Poi arriva».
Primo impatto? 
«È più bea di quanto immaginassi e mi colpisce la gonna che arriva sopra il ginocchio: sai, tutte le donne ai tempi le portavano più lunghe. Così mi incuriosisco». Cioè pensi a come sta cambiando la moda? 
«No, penso a cosa potrei vedere se andassi sotto il tavolo!».
Ahahah. Torniamo seri: prime parole?  
«La guardo e dico: “Signorina, è un piacere averla conosciuta”. Risposta: “Mona”».
Inteso come sciocco? 
«Sì, e continua: “Mona, è un anno che ci diamo del tu e mi chiami signorina?”».
Nasce un grande amore. 
«Immenso. Nel 1946 ci sposiamo, nel ’47 viene alla luce Ornella e nel ’50 Gianfranco. Silvana è morta nel 2012, a 88 anni: insieme ci siamo divertiti e abbiamo girato il mondo».
Walter, ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione? 
«Non sono credente perché è stata inventata da noi altri».
2) Paura della morte? 
«Non mi interessa».
3) Hai conosciuto qualche personaggio storico in 103 anni? 
«Enrico Mattei. Quando ho lavorato come procuratore al Ministero delle Finanze di Padova l’ho sentito quattro volte al telefono. Gli ho fatto risparmiare mezzo miliardo di lire, voleva farmi Cavaliere ma ho rifiutato».
4) Hai 103 anni, ma quanti te ne senti? 
«Meno di dieci».
Ultimissima: si sta meglio oggi o si stava meglio 100 anni fa? 
«Decisamente allora».
Anche se c’era la guerra? 
«Perché, adesso non ci sono le guerre?».