Lo scrittore a cent'anni dalla morte

Se la vita di Kafka sembra un romanzo kafkiano

Francesco Specchia

T utto cominciò da «un martedì d’estate limpido e piacevole del 1883» dove «il vento soffia debole negli stretti vicoli della Città Vecchia di Praga, dove già verso mezzogiorno la temperatura sale a 30 gradi».
Quel giorno, al numero 9 della Niklasgasse nasce Franz Kafka, un aspirante commerciante di stoffe figlio di commerciante di stoffe che cambiò il proprio destino (rendendolo, spesso, un’allucinazione).
Questo è l’incipit con cui Reiner Stach descrive nella sua possente trilogia, di cui sono usciti i primi due volumi, Kafka - I primi anni e Gli anni delle decisioni (Il Saggiatore, pp 762, euro 45), in modo tombale la figura e le opere dell’immenso praghese a cent’anni dalla di lui morte. Kafka. Uno dice “Franz Kafka” e subito pensa a un Lovecraft con più talento, a un Joseph Conrad ritirato nell’oscurità di una cantina zeppa di demoni. Uno dice “Kafka” e gli si aprono mondi, emozioni, interi gruppi semantici che non sempre - anzi, quasi mai - attengono ai suoi racconti o romanzi o al patrimonio delle 3400 pagine di appunti, diari, frammenti. Dal «più grande scrittore del Novecento» a «quello di cui non si capisce una riga», passando da «genio del crepuscolo», «ebreo sui generis», «visionario ma deprimente», «picco e abisso»: la bibliografia sullo scrittore ne fa emergere, alla fine il suo maestoso senso di incompiutezza.
Qui si potrebbe parlare della sua infanzia di ebreo di lingua tedesca appartenente alla classe media di Praga, allora capitale del Regno di Boemia; della sue due anime che riflettevano le due lingue e le due comunità; del suo travagliato rapporto col padre, con la madre e con la religione; del sistema scolastico che il giovane Franz frequentava, «col cuore continuamente stretto dal timore di non essere adeguato alle severe - e non di rado ottuse - richieste dei suoi insegnanti»; dei «dibattiti culturali cui Kafka universitario partecipa con distacco critico»; del mondo del lavoro alle  Assicurazioni Generali in cui il “dottor Kafka” (laureato in giurisprudenza dopo aver lasciato la chimica) muove i suoi primi passi con orario d’ufficio 8/18; infine, della sua opera letteraria che solo grazie all’amico Max Brod sopravvisse alla sua furia nichilista post-mortem.
LA CONSAPEVOLEZZA Eppure, Stach qui indaga – con acribia, devozione, mai prurigine- anche e soprattutto nella vita privata del nostro. Sono tranche de vie in cui la dura educazione borghese ricevuta dalla famiglia si ribalta nelle vergognose serate trascorse nei bordelli praghesi a ubriacarsi di sesso e di birra; serate in cui gli schermi dei cinema nei quali s’infila ogni volta che ne ha l’occasione riempiono occhi di visioni che nutriranno i suoi primi racconti. Sfogliando così, random, i libroni di Stach, si nota che è tra il 1910 e il 1915 che emerge la consapevolezza letteraria di Kafka. Sono, quelli, gli annidi una storia d’amore straziante, incompiuta come tutta la sua narrazione esistenziale - durata neppure quarantun anni - con Felice Bauer, del cui epistolario Kafka fece una sorta di feticcio. Ed è anche, questo, il periodo in cui i suoi continui fallimenti letterari si giustapponevano alle delusioni della vita, laddove si definisce il rapporto con la famiglia, l’ebraismo e la salute del corpo. La vita di Kafka è durata quarant’anni e undici mesi. Troppi, o troppo pochi, a seconda delle prospettive. Di questi anni, sedici Kafka li ha spesi tra scuola e università; quindici, nella vita lavorativa.
Stach è puntiglioso, perfino negli spostamenti fisici di Kafka che vanno oltre le escursioni nel fine settimana.
Kafka trascorre circa quarantacinque giorni all’estero. Passa da Berlino, Monaco, Zurigo, Parigi, Milano, Venezia, Verona, Vienna. Vede e naviga tre mari: quello del Nord, il Baltico e l’Adriatico. Eppoi «non si è mai sposato. Non ha lasciato discendenti. Oggi, le opere che Kafka considerava complete ammontano a circa 350 pagine. Non si contano gli innumerevoli quaderni che Kafka stesso ha distrutto o le lettere – che oggi sono circa 1.500. Le epistole di Kafka ruotano attorno ai parametri della sua personale felicità: salute, attività sessuale, vita familiare, divertimento, avventure, indipendenza e realizzazione professionale.
Dalle pagine si deduce che Kafka non fosse affatto un drop out, un esiliato della letteratura, come si ama spesso descriverlo, ammantandolo di misantropia. Il suo modo di vivere ai margini della società è quasi artistico; non ama il mestiere, è roso dalle malattie, dall’incubo della guerra, dalla burocrazia del suo quotidiano ufficio, dall’anonimato, da un ascetismo che non gli risolveva i disturbi psicosomatici, anzi lI dilatava. Stach lo paragona a Robert Musil. «Erano entrambi impiegati pubblici, uno in una compagnia assicurativa a Praga, l’altro in una biblioteca universitaria a Vienna. Entrambi soffrivano di disturbi psicosomatici, entrambi erano annoiati e scoraggiati da quanto la noia potesse diventare uno stile di vita», scrive Stach.
Eppoi, quella sua idea della guerra da patriota deluso e riformato alla visita di leva. Brod riferì che Kafka era l’unico dei suoi amici convinto che ci sarebbe stata una vittoria finale da parte dei tedeschi, impressionato dall’energia collettiva della popolazione. Stach descrive anche il suo rapporto col denaro, la sua tendenza alla risata, della tubercolosi che affrontò con ironia, del suo essere ebreo e profondamente onesto. Kafka resta l’unico artista a dilatare la sua irrequietezza e le sue contraddizioni fino a renderlo modello imprescindibile per tutti i visionari che gli succedettero...