Francesco Vaia: "Un'altra pandemia? Basta allarmismi, ora siamo pronti"
Un «progetto sui giovani come obiettivo del Paese». Francesco Vaia lo abbiamo conosciuto in quegli anni là, quelli bui, del Covid e dei lockdown di massa, all’istituto Spallanzani di Roma, col camice indosso perché era in prima linea nella lotta (che abbiamo vinto, per fortuna) al virus: oggi fa il direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute. È uno che parla schietto, Vaia. Uno pratico, che non ci gira attorno, che ha le idee chiare: «Non è che prima non ci fossero, ma la pandemia, e anche alcune misure eccessivamente protratte, hanno esacerbato i disturbi dei ragazzi».
Professor Vaia, nell’ultima nostra chiacchierata abbiamo discusso proprio dei giovani. La prenda a mo’ di battuta: cos’è, un suo chiodo fisso?
«Si tratta di temi centrali su cui bisogna riscoprire uno spirito unitario. Il problema di questi disturbi, o dell’eccessivo ricorso ad alcune sostanze psicotrope, non può essere un discorso di destra odi sinistra, su queste cose non ci si può dividere. Dovrebbe diventare un progetto del Paese. Il nostro Paese dovrebbe comprendere come fare a “difendersi”».
Come?
«Facciamo in modo che si possano insediare un gruppo e un progetto rivolto proprio ai giovani. “Progetto Italia giovani”. Possiamo anche approfittarci di questo momento, se in un vertice europeo o, meglio ancora, del G7, tra le altre cose, si parlasse e si mettessero al centro i ragazzi, sarebbe importante. È un tema a tutto tondo perché attraversa l’intera società».
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Vero. Tra l’altro archiviata la pandemia, non è archiviato l’allarme sui disturbi, come li chiama lei, giovanili...
«Continuano, è vero. E sono addirittura aumentati. Se pensa a quelli alimentari, della nutrizione, sono cresciuti di oltre il 30%. È una cosa molto grave».
Anoressia, bulimia: che si deve fare per contrastarli?
«Non possiamo più pensare di passare solo attraverso la delega esclusiva alla Sanità. Da sola non ce la può fare. Servono interventi intersettoriali a partire da un’alleanza che vada dalla scuola alla famiglia e, appunto, alla salute. Sono tre cose che dobbiamo tenere presente: questi disturbi possono nascere e crescere a casa o in classe. Infatti stiamo pensando a un progetto col settore dell’Istruzione».
In cosa consiste?
«Dobbiamo fare in modo che nelle classi non ci si occupi solo dell’informazione su quale sia il corretto stile di vita, ma occorre dare ai ragazzi delle risposte come sistema. Le ricordo che ancora oggi abbiamo sei scuole su dieci senza palestre. Se abbiamo i parchi che non sono curati, se abbiamo delle città che non sono healthy cities (realtà urbane pensate in chiave di salute al cittadino, ndr), che non danno la possibilità ai giovani di esprimersi al meglio, è su questo che dobbiamo lavorare. Prenda i disturbi dell’alimentazione che abbiamo citato, sono soprattutto un problema sociale».
Ha ragione, ma in concreto questo “lavoro che c’è da fare” come si declina?
«Tanto per cominciare abbiamo dato dei fondi in più per far funzionare i centri che accolgono le persone che hanno questi disturbi. Con i nuovi Lea (i Livelli essenziali di assistenza, ndr) faremo in modo che ci siano ben sedici prestazioni gratuite, a partire dall’assistenza più importante che è quella psicologica. E poi occorre rendere questi finanziamenti strutturali. Sono le due linee su cui il ministero e il ministro si stanno impegnando. Tuttavia, e purtroppo, ci sono anche altre problematiche».
Per esempio?
«Informare i ragazzi sul sesso protetto. Bisogna che li informiamo su questo senza un atteggiamento moralistico o etico. I giovani vanno protetti anche dalle malattie sessualmente trasmissibili. Occupiamoci adesso dei giovani e non quando, ahimè, sbuca fuori un problema come il fentalyn».
Ecco, il fentanyl. Ma c’è un allarme a riguardo?
«Non c’è nessun allarme, almeno non Italia, e dobbiamo dirci anche questo. Ma il discorso di protezione del Paese sì che c’è, eccome».
Cioè?
«Il 7 febbraio ho fatto una circolare di “allerta 3”. Si chiama così, è quella più importante, più avanzata. Ho detto a tutti, alle forze dell’ordine e alle Regioni, che anzitutto bisogna informare gli operatori dell’esistenza di questo problema. Stiamo parlando di un oppioide che viene impiegato come medicamento: però, se nel mondo globalizzato succede che in America, come sta succedendo, viene utilizzato in maniera impropria, io sono molto preoccupato. Faccio prevenzione, il mio compito è fare in modo che le cose non accadano».
E per non farle accadere cosa si fa?
«Prima di tutto si informano e si allertano le strutture di riferimento che si potrebbero trovare fenomeni di carattere fraudolento. Sono di due tipi: il fentanyl potrebbe venire rubato dagli ambulatori oppure potrebbero essere immesse in commercio molecole prodotte all’estero, prevalentemente nel Sud-Est asiatico. Dobbiamo stare attenti. In seconda battuta c’è la questione dell’approvvigionamento».
Mi scusi, l’approvvigionamento?
«Esiste il naloxone, che è un “antidoto”, ed è efficacissimo. Qualora un ragazzo dovesse prendere, malauguratamente, il fentalyn e andare in overdose, abbiamo la possibilità di salvarlo».
Quindi dobbiamo essere pronti. È un po’ la lezione del Covid, dopotutto, no?
«Esatto. Non ci facciamo più trovare impreparati. I piani devono essere fatti».
Senta, a proposito di Covid. Sono giorni che si parla di questa fantomatica “pandemia x”. Ma di cosa si tratta?
«Gli urlatori di ritorno sulla “pandemia x” che stanno creando allarmi ingiustificati dovrebbero rendersi conto che anche questo fa crescere una preoccupazione eccessiva nei giovani, che già sono stressati per la guerra e mille altre cose. Guardi, la “pandemia x” è una cosa che non esiste. La gente immagina che dopo il Covid arrivi un’altra pandemia che si chiama così. No, non è questo. Diciamocelo senza mezzi termini».
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Allora cos’è?
«Qualcuno ha semplicemente detto, a suo tempo: “Guardate che potrebbe (noti l’uso del condizionale) arrivare una nuova pandemia che chiamiamo x perché è incognita, cioè non è conosciuta”. Va bene. Infatti ci stiamo preparando, il nostro mood dev’essere: “Prepariamoci”».
Per non trovarci scoperti un’altra volta e magari rifare la corsa dell’ultimo minuto per gli acquisti di mascherine... E la dengue, invece?
«Anche qui, ma una volta tanto vogliamo riconoscere che il nostro Paese sta facendo prevenzione vera? Siamo partiti per primi in Europa. Sempre nel mondo globalizzato, visto che in questo viviamo, se sappiamo che in Brasile ci sono due milioni di soggetti che si sono infettati rispetto alla dengue, e se sappiamo che il vettore principale è la zanzara aedes aegypti, è necessario fare in modo che non venga in Italia. Di nuovo, avvertendo medici e infermieri, porti e aeroporti, andando a vedere se sono state fatte le azioni di bonifica...».
Però da noi c’è la zanzara tigre, non basta lei?
«La dengue si trasmette zanzara-uomo-zanzara-uomo. Tuttavia sì, è come dice lei, qui c’è la zanzara tigre, la aedes albopictus, che potrebbe essere, anche se in misura minore, responsabile della malattia. Ma attenzione, non c’è nessun allarme perché non abbiamo nessun caso autoctono».
Questo non significa che non si deva fare prevenzione, ma in che modo?
«Facendo gli sfalci dei parchi, per dirne una, perché non siano luoghi dove si può contrarre malattie ma siano invece zone fruibili. La popolazione deve essere informata: usiamo i repellenti, le zanzariere, copriamoci quando andiamo in un posto dove può esserci una presenza di zanzare, come negli orti, evitiamo l’accumulo di acqua nei sottovasi. Sono atteggiamenti di buonsenso individuale e di sistema su cui Comuni e Regioni possono intervenire. Indubbiamente. Abbiamo anche aggiunto un tassello in più. Posso?».
Prego.
«Offriremo alle persone che vengono dai Paesi a rischio, in questo caso quelli del Latino-America, dei test gratuiti su base volontaria. Li faremo e se, poi, uno volesse essere assistito saremo in grado di seguirlo. E sì, ha detto bene lei: è la lezione del Covid. Ma siamo preparati».