Contro la perdita del sacro torniamo pagani: la lezione di C.S. Lewis
«La nostra battaglia per gli ideali democratici contro quelli nazisti è stata una perdita di tempo, poiché gli uni non sono meglio degli altri». C.S. Lewis dosa e mescola le parole con la cura dello speziale. Queste, gelide come il ferro, furono vergate con gli orrori della Seconda guerra mondiale ancora fumanti in un breve saggio pubblicato alla vigilia del Natale di 77 anni fa, dimenticato e poi ritrovato solo molto più tardi. Sangue, fatica, lacrime e sudore versati in una lotta epocale contro il male senza più il senso del bene. Fa balzare sulla sedia oggi come ieri.
Nel dicembre 1946, il giornalista Douglas Edward Macdonald Hastings dirigeva da poco più di due anni The Strand Magazine, un classico inglese come il tè, la testata che rese popolare lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Le firme eccellenti erano ed erano state di casa: H.G. Wells, Edith Nesbit, l’umorista P.G. Wodehouse, Agatha Christie, D.H. Lawrence, Evelyn Waugh, l’Henry Rider Haggard de La donna eterna e Allan Quatermain, la Dorothy L. Sayers traduttrice sublime della Divina commedia, Rudyard Kipling, nientemeno che Winston Churchill e addirittura la regina Vittoria, che contribuì con un bozzetto da lei disegnato. Macdonald Hastings volle anche i best-selleristi del momento, John Steinbeck e Lewis; al secondo chiese una meditazione sul 25 dicembre.
LA PROVOCAZIONE
Ne nacque un titolo curioso e un testo provocatorio: A Christmas Sermon for Pagans, «Un sermone di Natale per pagani». L’impaginazione stessa è un pezzo di bellezza, con angeli e demoni disegnati dal famoso cartoonist Ronald Searle (e ricordano quelli di Giovannino Guareschi, quasi un sentire comune del tempo). Sfuggito agli studiosi più acribici per decenni, l’articolo è stato riscoperto indipendentemente da due ricercatori nel 2013 e nel 2015, e poi trascritto nel 2017 su Seven, il ricco periodico di studi letterari pubblicato dal Marion E. Wade Center del Wheaton College, in Illinois, che conserva carte e cimeli lewisiani. Resta solo lì, non è stato (ancora) raccolto in alcun libro, men che meno in italiano. Il mondo uscito dalle devastazioni belliche, constata Lewis, è senza valori, senza morale; pagano, dicono molti. Magari, ribatte Lewis, giacché i pagani erano meglio di noi. Gli antichi e l’umanità sfigurata di oggi sono simili, scrive Lewis, quanto una vedova e una sposina avanti le nozze.
L’uomo precristiano era migliore dell’umanità postcristiana per due motivi. «Anzitutto, era religioso». Con i suoi limiti, i suoi problemi, ma profondamente credente. Viveva l’incanto del mondo e per lui tutto rimandava al divino. «E in secondo luogo credeva in ciò che noi oggi chiamiamo il Bene (Right) e il Male (Wrong) “oggettivi”». Di un’attualità devastante, nel relativismo assoluto odierno. Oggi infatti «ogni gruppo può inventarsi il proprio codice o la propria “ideologia” a piacimento». Ma «se non vi sono il Bene e il Male veri, cioè nulla che sia giusto o sbagliato in sé, nessuna di queste ideologie può essere migliore o peggiore di un’altra.
Un codice morale può infatti essere migliore di un altro solo se si avvicina a un codice reale o assoluto. Una mappa di New York può essere migliore di un’altra solo se esiste una New York concreta a cui quella possa attenersi più fedelmente. Se non vi sono parametri oggettivi, allora la scelta fra una ideologia e un’altra si riduce solo a una questione arbitraria di gusti». È qui che Lewis inserisce la fucilata su democrazia e nazismo. Ma la diagnosi acre non punta affatto a disperare, bensì a scuotere.
Il Natale è appena passato, e Lewis sa bene cos’è il Natale perché lo ha imparato sulla propria pelle. Ha vissuto lunghi anni lontano dalla fede. Ha dileggiato i cristiani come sempliciotti, parvenu, poca cosa. Ha vissuto di letterature sublimi insegnando a Cambridge e si è cullato in miti dorati, magici ma vuoti, diceva, come ogni credo, come ogni fede, tanto che nel 1931 l’amico J.R.R. Tolkien glielo ricordò polemicamente nella poesia Mitopoeia, frutto di una loro discussione. Poi lo stesso Tolkien con altri seppe innamorare Lewis alla verità morale del mito pagano, colossale “letteratura dell’Avvento” che il 25 Dicembre avrebbe in finis ricapitolato e inverato. Lewis razionalizzò il concetto in un saggio breve del 1944, Myth Became Fact (lo tradussi anni fa sul settimanale di cultura il Domenicale), ma dapprima lottò duro contro questa idea. Capiva che lo avrebbe portato al Dio che non voleva, ma alla fine Dio vinse. Quel 25 dicembre in cui inizia, nel calendario tolkieniano, la missione della Compagnia dell’Anello conosce un’Attesa antropologica e storica che Lewis ha rivissuto in persona e persino accasato ne Le cronache di Narnia.
LA RICETTA
Quando nel suo sermone del 1946 scrive che l’unica salvezza dell’uomo postcristiano è tornare pagano, pagano vero, cita implicitamente un po’ il Vangelo di Matteo (se «non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli») e preannuncia Nicolás Gómez Dávila: «Più che un cristiano, sono forse un pagano che crede a Cristo» ed «è un perfetto cattolico solo chi edifica la cattedrale della sua anima su cripte pagane». «Forse ciò che intendo», conclude Lewis, «lo si può formulare meglio così.
Se la prospettiva post-cristiana moderna è sbagliata ‒ faccio più fatica ogni giorno che passa a pensare sia giusta, allora nel mondo vi sono tre tipi di persone. (1) Quelli che sono malati e non lo sanno (i post-cristiani). (2) Quelli che sono malati e lo sanno (i pagani). (3) Quelli che hanno trovato la cura. Se si inizia dal primo gruppo, si deve passare dal secondo per arrivare al terzo. Perché (in un certo senso) tutto ciò che il cristianesimo aggiunge al paganesimo è la cura. Conferma l’antica credenza che in questo universo ci troviamo di fronte alla Potenza Vivente: che esiste un Bene vero e che a esso abbiamo disobbedito, che l’esistenza è bella e terribile. E aggiunge una meraviglia di cui il Paganesimo non aveva sentito parlare con chiarezza: che l’Onnipotente è sceso tra noi per aiutarci, per rimuovere la nostra colpa, per riconciliarci. In tutto il mondo (anche in Giappone, anche in Russia) gli uomini e le donne si riuniranno il 25 dicembre per fare una cosa molto vecchio stile e, se vogliamo, molto pagana: cantare e festeggiare perché è nato un Dio. Sì, voi non sapete se non sia soltanto poco più di un mito.
Ebbene, se lo è, la nostra ultima speranza è svanita. Ma non vale forse la pena di provare la spiegazione opposta? Chi può sapere se non sia qui, e solo qui, che si trova la strada per tornare non solo in Paradiso, ma anche sulla Terra, pure dentro la grande famiglia umana le cui speranze più antiche sono confermate da questa storia che non muore?».