Il secolo autoritario

Paolo Mieli, la profezia: ecco perché la democrazia è in pericolo

Francesco Specchia

Ci sono tutti gli irregolari di talento. C’è Artemisia, «figlia di Ligdami, tiranno di Alicarnasso e di una cretese» nonché, «guerriera corsara» e vassalla di Serse, gran re di Persia al quale ella consiglia - apprezzata ma non ascoltata- di evitare di mettere in mare tutto quel popò di flotta a Salamina. Ché poi s’è visto. E c’è Gregorio VII, autocrate rivoluzionario, Papa «conosciuto per aver costretto l’imperatore  Enrico IV a umiliarsi a Canossa», inventore dell’ortodossia cattolica- e quindi dell’eresia- e fautore del celibato ecclesiastico, e genio della comunicazione nel esser riuscito a far identificare Roma con la pietra miliare del mondo. E c’è Fritz Bauer, il più giovane magistrato ebreo di Weimar, poi licenziato dai nazisti, e imprigionato e fuggito dai campi di concentramento, per rientrare in patria dopo la guerra, fiero e vendicativo. E poi ci sono i Templari; e la cancel culture che appare sin dalla corte dei Papi e arriva fino a Mario Vargas Llosa che la denuncia alla Biennale di Guadalajara nel 2023; e il modello impossibile della propaganda di Goebbels; e i regimi arabi nel loro rapporto col terrorismo moderno.

C’è tutto questo e c’è molto altro: c’è, insomma, una lunga panoramica panottica - come direbbe Bentham - sulla storia dell’umanità attraverso alcuni suoi caratteri imperiosi, disseminati tra le pagine del saggio di Paolo Mieli, Il secolo autoritario (Rizzoli pp 303, euro 18.50). Un saggio che, in una lunga e ricca costellazione di articoli e recensioni, si spinge all’analisi dei totalitarismi del Novecento ben radicati nel passato.

L’ANALISI
Mieli è storico pregiato e possiede l’arte della divulgazione. E, accendendo la miccia delle rivoluzione perdute, imbastisce il suo arazzo narrativo prendedo l’abbrivio dal patto Molotov-Ribbentrop e dai «protocolli segreti» che hanno segnato anche il lungo periodo postbellico (e sopravvivono nella retorica putiniana). Poi imposta un’analisi profonda dell’eredità che ancora scontiamo del secolo scorso.

La sinossi del libro è efficacissima: «Mieli identifica i temi che abitano il dibattito pubblico odierno e che dell’autoritarismo portano un inconfondibile tratto: la convivenza religiosa spesso impossibile, la violenza organizzata del nostro mondo globale, il terrorismo nelle sue forme ormai internazionali, la cancel culture che abbattendo i monumenti vuole imporre una «nuova inquisizione che induce all’autocensura». Per insinuare il dubbio che quella (in)giustificata euforia democratica sorta sulle ceneri della guerra mondiale e rinnovata dalla caduta del muro di Berlino non sia stata altro che un abbaglio collettivo: il secolo autoritario di un secolo fa dura ancora oggi». Sottoscriviamo. E pure aggiungiamo che il giornalista-storico smentisce il sottotitolo della pro pria opera Perché i buoni non vincono mai: i buoni forse non vinceranno in senso classico; ma lasciano traccia nella storia e il loro legato si trasforma, a posteriori, in una vittoria a lunga gittata.

In queste dissertazioni dotte ed evocative l’autore insinua il germe del dubbio su vicende consolidate. Cito random le domande carsiche più evidenti: l’antifascismo volle o non volle davvero vedere l’irresistibile ascesa del fascismo (sminuendo anche la portato del delitto Matteotti, ritenuta l’ultima spiaggia di Mussolini, «la bestia che era ormai domata»)? Forse lo stesso Putin è il figlio di questa sottovalutazione? Non è che la democrazia liberale dovrebbe compensare il peso dell’antifascismo con quello dell’anticomunismo (teoria da vecchia scuola De Felice, di cui Mieli è discepolo)?

E ancora: è possibile che l’eccesso della liberaldemocrazia come «sistema globale» abbia portato ai nuovi regimi autoritari legati a doppio filo a una strana quanto efficace idea di sviluppo economico come quella cinese? E, a proposto della Cina: sarà Xi Jingping a stagliarsi davvero all’orizzonte di un modello unico antioccidentale, o saranno i paesi musulmani, come diceva la Fallaci? Nell’ultimo capitolo Un abbaglio collettivo, Mieli cita Il tramonto del liberalismo occidentale di Edward Luce e aggiunge: «Altro abbaglio fu preso nei confronti della Cina. Molti studiosi dei sistemi comunisti erano persuasasi che, una volta introdotti nell’economia cinese elementi di mercato, i germi delle democrazia e delle libertà avrebbero inevitabilmente contagiato anche il sistema politico. Le cose sono andate esattamente all’opposto». Più chiaro di così...

LO PSEUDO SENOFONTE
Mieli chiude con le «università inglesi trasformate in macchine di propaganda» citate senza rimorso dall’autorevole femminista Kathleen Stock (la stessa che ha difeso le uscite del giornalista Andrea Giambruno sullo stupro, per capirci) e con il pericolo del “wokismo”, ossia dell’eccesso del politicamente corretto in grado di generare, dal suo foro interiore, contraccolpi di ugual potenza come il trumpismo. Come dire: dietro ogni democrazia si può celare l’ombra di un autoritarismo. Mi viene in mente l’Athenaion Politea operella lette tra l’esegesi delle fonti in tutte le scuole di diritto pubblico, a firma di uno Pseudo Senofonte che richiamava tutti i pericoli delle democrazia. Si era a cavallo tra il V e il IV secolo avanti Cristo, ma secondo i parametri mieliani sembra ieri...