Il quotidiano torinese

Michela Murgia "come Pasolini": lo sfondone de La Stampa

Giovanni Sallusti

Il rispetto per chi non c’è più è sacro, così come il rispetto per le gerarchie di senso, che dovrebbero costituire la costante, il testimone che passa da chi se ne va a chi resta. Ieri Mirella Serri, saggista, giornalista, femminista, ha sfornato su La Stampa una meditabonda lenzuolata in cui paragonava due “scrittori di vita”. Michela Murgia e Pier Paolo Pasolini. Che sarebbe come accostare le qualità calcistiche del sottoscritto a quelle di Leo Messi, proviamo a dirlo col maggior tatto autoironico possibile. Siamo troppo contemporanei per essere postmoderni, non possiamo mischiare del tutto l’alto col medio, non possiamo seriamente sostenere che l’iperrealismo straccione e sublime di “Ragazzi di Vita” equivalga al compitino rievocativo di “Accadabora”, che gli Scritti Corsari dell’uno valgano la rubrica su L’Espresso dell’altra.

 

 

 

L’ABISSO TRA I DUE

La femminista Eppure, questo è ancora canone letterario, che qualcuno può equivocare per gusto soggettivo. Andiamo al cuore della tesi di Mirella Serri: «Murgia e Pasolini sono le icone della protesta intellettuale novecentesca e post-novecentesca». Non c’era niente di più lontano da PPP della “protesta”, che è sempre organizzata, gruppettara, massificante. Tanto che, notoriamente, quando incrociò la Protesta per eccellenza del secondo ‘900, il Sessantotto, la incenerì con il formidabile sfogo poetico «Il Pci ai giovani!». Tutto dalla parte dei poliziotti, che «vengono da periferie/ contadine o urbane che siano», bastonati «per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale)» dai “figli di papà” contestatori. Posizione assai diversa, e un filo più articolata, rispetto al famoso aforisma murgiano, «quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre».

Non è un problema di virgolettati, è l’abisso ontologico che separa i due percorsi intellettuali. Pasolini ha remato costantemente, appunto con ostentata refrattarietà corsara, contro lo Spirito del tempo, soffiasse da destra o da sinistra, assumesse le sembianze del puritanesimo democristiano o di quello comunista. Murgia è stata invece il megafono (riconosciuto, vezzeggiato, retwittato all’infinito) del mainstream dei Duemila, petaloso, arcobaleno, “dirittista” a prescindere. «Sono contrario alla legalizzazione dell’aborto perché la considero una legalizzazione dell’omicidio», urlava PPP in fulminante contropiede contro pressoché l’intera intellighenzia italiana sul Corriere della Sera. Una posizione decisamente reazionaria secondo l’alfabeto di Michela Murgia, del resto PPP tale era tecnicamente: un “reazionario”, nemmeno un conservatore. Uno che avrebbe voluto riportare indietro la macchina schiacciasassi della Storia, che cantava l’autentiticità primigenia del cosmo contadino contro la “civiltà dei consumi”. Murgia incarna esattamente il debordare della civiltà dei consumi oltre se stessa, nel personale che diventa sempre politico, la teorizzazione della “queer family” liquida come nuovo modello di relazioni parentali.

 

 

 

L’ODIO PER I SALOTTI

Quindi, ha di nuovo torto Serri quando scrive che «Murgia e Pasolini sono accomunati dalla critica nei confronti dell’istituzione ritenuta il principale ostacolo a ogni cambiamento: la famiglia borghese». Pasolini non cercava il “cambiamento”, Pasolini cercava la rivolta, volutamente anacronistica, esistenziale, tragica. Questa rivolta era anche il modo di vivere la propria condizione di omosessuale, molto più a suo agio con i ragazzi di vita sottoproletaria che con i salotti pseudoilluminati. Non voleva sostituire un conformismo con un altro, non avrebbe mai sfilato per “i diritti Lgbt”, “le nozze gay”, un altro modello di “famiglia”. Figuratevi cosa avrebbe detto lui, cultore della lingua in tutte le sue sedimentazioni storiche e popolari, dell’utilizzo murgiano dello schwa, quest’astrazione grafica calata sul corpo dell’italiano come una mannaia censoria. Fino, certo, alla questione del fascismo. Che per PPP voleva dire anche, oggi soprattutto, il “fascismo degli antifascisti”, ovvero l’“omologazione culturale” che imperversava anche, se non soprattutto, a sinistra, in una nuova sinistra che sottoscriveva l’“imposizione” di una “falsa tolleranza” conformista e di “un’ideologia edonistica perfettamente autosufficiente”. Sì, assomiglia dannatamente alla sinistra incarnata come nessuno da Michela Murgia.