L'arte dell'impossibile
Repubblica e le continue, strepitose gaffe su Elkann e quel treno per Foggia
Il mucchio selvaggio sale sul treno per Foggia. Paolo Di Paolo è uno scrittore dalla penna lieve (ottimo il suo libello Tutte le speranze su Montanelli, senza averlo mai conosciuto), è firma di pregio di Repubblica, e ha - tra i meriti quello di recensire i libri del padre del suo editore facendolo apparire come Raymond Carver.
Maurizio Crosetti è un giornalista-narratore con un senso dell’umorismo in grado di trasformare l’inespressività del padre del suo editore in una cifra alla Buster Keaton. Fabio Finotti, direttore dell’Istituto italiano di cultura a New York e professore emerito dell’università della Pennsylvania, è convinto che i vagoni di prima classe sui treni pugliesi possono ospitare solo scrittori ebrei in lino stazzonato nonché padri dell’editore di Repubblica. Sono costoro i raffinati intellettuali che il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ha arruolato per rendere querelle letteraria uno dei pezzi più evanescenti e intarsiati di gaffe, di svenevolezza, di classismo e di sfida alla sintassi della storia dell’editoria moderna. Breve riassunto.
PROUST SUL VAGONE Alain Elkann, in un articolo su Repubblica (di proprietà del figlio John Elkann), indicandolo come «breve racconto estivo», racconta, appunto, di se stesso in viaggio in treno da Roma a Foggia. E di se stesso che, stretto nel suo completo di lino, tenta di leggere il Financial Times e Proust; mentre i suoi compagni di viaggio, ragazzotti, schiamazzano e pensano a rimorchiare in spiaggia. Alain si sente un marziano e viene completamente ignorato dai giovani. Il racconto suscita numerose polemiche, in primis tra gli stessi colleghi di Repubblica. I quali, in una nota, prendono le distanze dall’articolo definito eufemisticamente “classista”, dopo aver scartato l’idea che si trattasse di una provocazione o di un pastiche situazionista. In realtà quel pezzo rappresenta la vera Weltanschauung del callido Alain.
Ma del documento del cdr, però, non v’è traccia sul quotidiano: il direttore Molinari, evidentemente un tantino in imbarazzo, si rifiuta di pubblicare la nota, «pur essendo d’accordo nel merito». Però poi, astutamente, passa al contrattacco. E incarica, per l’appunto, il mucchio selvaggio degl’intellettuali di cui sopra; onde cercare di uscire dall’impasse in cui l’ha ficcato l’operella di Alain vaporosa al limite dell’inconsistenza. E io m’immagino che qui stia la grande sfida di ogni scrittore: prendere un – ammettiamolo - temino da terza media spacciato per reportage e costruirgli intorno un’impalcatura romanzesca.
Ecco quindi il buon Di Paolo che scrive: «A Elkann sarebbe forse bastato un minimo slancio in più e un filo di insofferenza in meno; e, da esperto intervistatore (da Moravia a Montanelli a una ragazzina di undici anni), avrebbe trovato materiale interessante. Scavare col pensiero in quel muro apparentemente invalicabile tra il suo abito “stazzonato” di lino blu e i loro cappelli con visiera: chi sono? Che cosa desiderano? Oltre quello che stanno dicendo a voce alta. “Tutte le persone sono simpatiche quando si riescono a capire”: non è Proust, l’autore che Elkann tentava di leggere fra gli schiamazzi. È Harper Lee».
Ah, ecco, ci mancava Harper Lee. Il buio oltre la siepe. Ossia l’esatta sensazione di un passante dopo la lettura dell’opera di Elkann. Poi c’è Crosetti. Il quale suggerisce altri percorsi letterari: «Elkann che aspetta il taxi a Termini, Elkann sulla Circumvesuviana, Elkann a Villa San Giovanni, Elkann sulla Potenza-Melfi. Un gioco, certamente, perché la narrativa è anche questo. E allora possiamo confermare che Alain Elkann non s’è fermato a Eboli, e che, trattandosi di un viaggio in treno, se invece di Proust avesse citato Anna Karenina sarebbe stato peggio». Anche se il peggio, caro Crosetti, nei giornali è un concetto relativo.
Infine, ecco la grande prova d’estro di Finotti nell’intervento titolato I lanzichenecchi visti dagli Usa: il caso Alain Elkann.
Finotti, che di Elkann presenta i libri in America, ne cita «il bel racconto». E specifica: «Chi dice “io” in un racconto non è lo stesso che dice “io” nella realtà, lo sappiamo tutti. Protagonista del nostro racconto non è e non potrà mai essere il vero Elkann. L’autore di un racconto si incarna nel personaggio che dice “io” ma ugualmente nei suoi antagonisti (qui i lanzichenecchi). Bakhtin la chiama polifonia. Fatta chiarezza (ma siamo all’ABC dell’analisi letteraria), vediamo come si presentano quei “lanzichenecchi” in difesa dei quali si sono alzate tante spade. Se nessuno porta l’orologio non è perché siano dei poveracci, ma perché il loro tempo è ormai segnato dal telefono....». Raffinatissimo.
POLIFONIA E ALTRO Finotti richiama addirittura, per Elkann, il concetto di “polifonia” di Michail Bachtin che attiene all’opera narrativa e gli orientamenti semantici di Dostoevskij, in Delitto e castigo e nei Fratelli Karamazov. Ma soprattutto ne L’idiota, titolo in effetti adattissimo ed evocatissimo in tutta questa vicenda, anche da coloro che non dirigono un istituto di cultura a New York. L’epilogo è un ammirevole quanto tenace tentativo di smarcarsi dalla shitstorm seguita all’essai elkanniano. Due paginazze belle dense in cultura su Repubblica che animano un dibattito su Roma-Foggia, sul treno delle discordia. Senza considerare un elemento banale: l’ultimo treno preso nella vita dall’ Alain era probabilmente l’Orient Express; e lo spaesamento del nostro Carver, padre dell’editore, in quello sprazzo di realtà diventava davvero la tragedia d’un mondo...