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Patrick Zaki, lezione del marò Latorre: "Servono educazione e riconoscenza"
Massimiliano Latorre è uno dei due “marò” del Battaglione San Marco che insieme a Salvatore Girone è stato vittima dell’odissea giudiziaria intentata dall’India con l’accusa – infondata, come ha stabilito il Tribunale italiano, archiviando il caso – di aver ucciso due pescatori del Kerala durante un’operazione anti-pirateria a bordo della petroliera “Enrica Lexie”. A distanza di dieci anni da quel 15 febbraio del 2012, l’inizio di una vicenda che tenne l’Italia per mesi e mesi col fiato sospeso, Latorre ha scelto di raccontare la sua storia in un libro a quattro mani con Mario Capanna: “Il sequestro del marò”. A Libero ha affidato le sue riflessioni: quelle di un soldato rimasto fedele – pagando ciò in prima persona – alla parola data. E che, calato il clamore mediatico, ha visto emergere da certe istituzioni a cui lui ha sempre dato tutto non un briciolo di riconoscenza per il servizio svolto ma, lo dice senza mezzi termini, una crescente «volontà di isolarmi, di ridurmi in silenzio...». Il motivo lo spiega in questa lunga intervista: la storia dei due marò attende ancora una parola chiara. «Si chiama verità».
Latorre, il calvario suo e di Girone è finito solo nel dicembre scorso: archiviazione piena da parte del Gip di Roma. Tutto dopo dieci lunghissimi anni. Cosa resta al termine di questa odissea?
«Restano tante cose: positive e negative. Il bicchiere è mezzo pieno. Volendo vedere solo le positive, posso dire che mi è rimasto il sostegno e l’affetto vero, sincero, della gente che mi sostiene ora come allora».
La sua vita è uscita stravolta da questa vicenda.
«Per senso di dignità personale non le faccio un elenco. Le posso assicurare, però, che non c’è aspetto sotto cui la mia vita non sia stata stravolta. In particolare la mia salute, fisica e psicologica, è stata segnata da quel vissuto. Mi riferisco all’ictus che purtroppo mi ha colpito e mi ha condizionato per sempre: anche semi ritengo comunque fortunato per il semplice fatto di esser qui a poter raccontare, nonostante diverse problematiche con cui devo convivere».
Arriviamo proprio al racconto. Si sono alternati ben sette governi durante il “sequestro” dei marò. Voi avete dimostrato grande postura e spirito di servizio. Si può dire lo stesso di chi ha gestito, politicamente e non, il vostro caso?
«Per quanto mi riguarda posso dire che è stato tutto realmente spontaneo. Inizialmente la forza mi veniva dall’affermare l’innocenza attraverso la dignità del silenzio. Con compostezza. Subito dopo è stata rafforzata dal grande affetto che cresceva costantemente ed in modo repentino in tutta Italia. Credo che sia stato un reciproco scambio: io avevo necessità dell’affetto dell’opinione pubblica, dall’altra parte credo che questa vedesse dignità, compostezza ed orgoglio patriottico nonostante le verità nascoste e le parole non dette che prendevano forma nei pensieri degli italiani...».
Il coautore del libro, lo scrittore e storico attivista Mario Capanna, ha riportato le accuse dell’allora ministro, Giulio Terzi, contro la decisione del governo Monti: quando foste rispediti in India nonostante l’allora titolare della Farnesina (che si dimise in polemica per questo motivo) aveva annunciato la volontà di tenervi in Italia...
«L’11 luglio il gruppo parlamentare di Fdi ha organizzato la presentazione del libro con i senatori Malan, Russo e Terzi. Ecco, per me è stata un’occasione importante per l’affetto e il supporto ricevuto dagli organizzatori. Ma ancor piu importante, anche se frustrante da uomo e da militare, è stato ascoltare le parole dell’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, che ha ammesso le motivazioni per cui fummo rispediti in India il 21 marzo 2013, proprio così come fu riferito dall’allora suo ministro degli Esteri, Giulio Terzi, in un’intervista rilasciata dopo anni dalle sue dimissioni. Quando, ricordando le motivazioni giuntegli da Monti e dal ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, spiegò – cito testualmente – che erano “fondate su ragioni di natura economica, dei danni che avrebbero subito le nostre imprese e delle reazioni indiane”...».
Insomma siete finiti, da innocenti, in un ingranaggio più grande di voi...
«Purtroppo sì. Non mi sono reso subito conto subito di quel che accadeva realmente. Sopravvivevo grazie alla forza datami dall’innocenza e dalla fiducia che riponevo nei rappresentanti istituzionali di allora dai quali mi aspettavo coerenza ed affidabilità. Invece ho trovato solo l’ordine di obbedire nell’assoluto e rigoroso silenzio chiesto ad un militare, ma per fortuna la gente che ci sosteneva zitta e ferma non è stata».
Non siete stati soli, infatti. Allo stesso tempo è sorta una mobilitazione popolare imponente a vostro sostegno. È opinione diffusa che proprio questa abbia avuto un ruolo nello spronare chi di dovere a non far calare l’attenzione sul vostro caso...
«Sì. Ricordo tanti italiani ed Associazioni d’arma, gruppi creatisi sui social che si inventavano qualsiasi cosa per tenere alta l’attenzione. Giornalisti quali Toni Capuozzo realizzarono poi vere e proprie inchieste atte a ripristinare la verità e il nostro onore».
Da una parte, con l’assoluzione, è giunto il lieto fine dall’altra però sono rimaste ferite personali e morali. Ha detto: «Vogliono ibernarmi». A chi si riferisce?
«Non mi è mai piaciuto fare nomi, e di certo non per vigliaccheria, se così fosse stato non avrei scritto questo libro; mi piacerebbe che a far chiarezza fosse un organo istituzionale con dati alla mano. Mi riferisco al Ddl dell’ottobre del 2022 a firma del vice ministro degli Esteri, Edmondo Cirielli, che propone l’istituzione di una commissione di inchiesta. Anche FdI si sta spendendo molto e sta organizzando presentazioni del libro su tutto il territorio al fine di far emergere cosa di sbagliato c’è stato».
Che cosa si aspetta dal governo Meloni?
«Non mi aspetto nulla, ma sarei felice se finalmente con il loro sostegno si potesse giungere a chiarire le responsabilità: non a fini giustizialisti ma solo per puro amore di verità. Questa storia non ha una connotazione politica ma è solo ed unicamente un’ingiustizia, che non deve ripetersi».
Proprio l’esecutivo guidato dalla Meloni è stato decisivo per la liberazione di Patrick Zaki. Quest’ultimo ha fatto di tutto per evitare di stringere la mano alla premier e al ministro Tajani. Come giudica questa scelta?
«Io sono un militare: purtroppo questa esperienza mi ha aperto gli occhi su altri aspetti a me prima sconosciuti, ciò non mi consente di giudicare a priori senza conoscere fatti e protagonisti. Posso dirle che, personalmente, non ne avrei fatto una questione ideologica e politica, mi sarei fatto guidare dal buonsenso, dall’educazione, dal rispetto e soprattutto dalla riconoscenza. La stessa per cui oggi sono impegnato nel ringraziare gli italiani nelle varie città: approfittando delle tante occasioni di incontro organizzate da chi allora mi ha sostenuto e che, anche grazie a questo libro, continua a tenere viva l’attenzione sulla vicenda che mi ha coinvolto e a chiedere verità».