Romanzo criminale

La Russa, i fratelli dipinti da "Repubblica" quasi come gangster

Antonio Rapisarda

Che i tre “indiani” La Russa – nativi milanesi, stirpe di padre cultore della nobile epopea degli sconfitti – rappresentino una tribù familiare solida è un dato antropologico tutto sommato banale: capita di essere uniti anche ai figli dei tanti Mario Rossi sparsi per lo Stivale. Ci vuole la fantasia (contorta) dei segugi di Repubblica, allora, per trasformare un’ovvietà in una sorta di romanzo criminale: con i tre fratelli Leonardo “Apache”, Lorenzo “Cochis” e Antonino “Geronimo” La Russa sbattuti in pagina come membri di un «clan». Proprio così: eccoci nella «Milano del clan La Russa. Tra guai e vita spericolata».

 


Una sceneggiatura, titola proprio così il quotidiano del gruppo Gedi, che sfrutta un elemento di cronaca – l’indagine per violenza sessuale nei confronti di Leonardo Apache, il più piccolo della progenie di Ignazio La Russa – per costruire un nuovo girone infernale: quello dei “rampolli”. È lì che i tre fratelli sono stati spediti senza alcuna garanzia (ma va?) dalla redazione progressista. Una cerchia dove si finisce – udite, udite – per «esuberanza giovanile, testa calda, azzardi e inciampi». E, chiaramente, se si è figli di un esponente del centrodestra. Già, se l’obiettivo della campagna stampa sulla vita dei fratelli La Russa è fornire ai lettori un incrocio fra gli antieroi di Scarface e i drughi di Alex, la realtà che emerge dallo stesso racconto del cronista di Repubblica, alla fine, è tutt’altra.

 


Certo, a «far tremare la casa» adesso è “Larus”, nome d’arte del ventunenne Leonardo Apache, accusato da una sua ex compagna di scuola di stupro dopo una serata in discoteca avvenuta nel maggio scorso. Al momento, però, nel suo curriculum è solo il «terzogenito che fa brutto con la trap». Autore di testi improbabili («Sono tutto fatto, sono tutto matto, ti fotto pure senza storie») di cui la storia della musica farà tranquillamente a meno. Uno che, al suo diciottesimo, si è presentato con la camicia con le iniziali ricamate. «Roba che il suo idolo Sfera Ebbasta – si legge nell’articolo – lo squalificherebbe per molto meno». Tutto qui. E gli altri due? “Colpevoli” di chiamarsi anch’essi La Russa.

 


Perché di «vita spericolata» non sembra esserci traccia: di Lorenzo Cochis, infatti, ciò che emerge è che è capogruppo di FdI nella circoscrizione Centro di Milano e che è un amante delle auto. Quanto al primogenito (avvocato come il padre e socio dei figli più piccoli di Berlusconi) Geronimo – a parte qualche episodio di baldoria nei party a casa di amici – l’accusa peggiore che gli può muovere Repubblica è il “reato” di saluto romano alle feste di carnevale quando una volta, parole sue, «mi sono vestito da Balilla. E un’altra mi mascherai da Giulio Cesare». E la Milano dove spadroneggerebbe il “clan”? Non pervenuta. A parte la «discoteca dei La Russa». Ossia l’Apophis (che non è di proprietà dei tre, ndr), dove si è tenuto il party Eclipse nel quale si sono incontrati Leonardo Apache e la sua amica. In questo club, spiega un anonimo dj, «li trattano come dei pascià. Perché sono loro. Perché portano gente. Perché la gente che portano, spende. Forse spendono anche loro...». Insomma la loro “colpa” sarebbe quella di essere ottimi clienti. Morale dell’inchiesta? Sciacallaggio bello e buono. A dirlo, insieme a noi di Libero, uno col cuore a sinistra come Carlo Calenda. Criticare le sparate del padre «è doveroso. Proteggere la ragazza che ha denunciato anche». Ciò che non è decoroso, per il leader di Azione, «è mettere questi ragazzi nel tritacarne. Quanto pagano i La Russa per andare nei club non è materia politica e neppure giudiziaria. È voyeurismo».