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Giovanni Allevi, gatti e meditazione: la lotta contro tumore e dolore

Claudia Osmetti
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Gli è venuto un ciuffo bianco e i capelli sono raccolti sotto una cuffia grigia. Però indossa una maglietta rosa con le maniche corte e sdraiato sulla pancia ha un gattino maculato. Che dorme con lui, che gli fa compagnia, che gli dà pure forza per affrontare la malattia. Il compositore Giovanni Allevi ha scoperto di avere una neoplasia nell’estate dell’anno scorso; oggi, «per superare il dolore, dedico del tempo, ogni giorno, alla meditazione. E grazie al gattino, divinità adorata dagli antichi egizi, mantengo il contatto col Dio tutto della Natura, indiviso, eterno, sempre beato, che permea col suo logos ogni cosa». Lo scrive lui stesso, sulla sua pagina Instagram, allegando quella foto, dove compare steso a letto, col grande cuscino bianco dietro la nuca, una mano attorno al micio e l’altra sulle gambe, con gli occhi chiusi, la bocca serrata. In contemplazione. Anzi, in «meditazione», per usare la sua espressione. È che gli animali, nei momenti difficili, sono una “cura” che regala sollievo. Non serve neanche scomodare i faraoni, lo dice la scienza.

 


LA SCIENZA Dice, cioè, che possono avere un effetto calmante (diminuendo la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa), che possono stimolare la mente (specie i cani), che possono abbassare l’ansia e aiutare la riabilitazione del corpo.
E allora eccolo lì, quel piccolo gatto con le zampette bianche e le orecchie addormentate, pacifico mentre Allevi lo accarezza, rilassato e rilassante. Non sappiamo se faccia parte di un vero e proprio programma di “pet therapy”, cioè di quegli interventi assistiti con gli animali che in Italia godono di una normativa strutturata addirittura dal 2015, quando nessun altro Paese europeo era arrivato a tanto, ma poco importa. L’importante è che funzioni. Con Allevi o con qualsiasi altro malato che lotta contro una patologia più o meno invalidante, più o meno grave, più o meno drammatica. Non c’è una graduatoria delle malattie, il dolore ognuno lo sente a modo proprio. Non c’è neanche, spesso, una terapia universale. Però ci sono loro, i cuccioli, gli animali da compagnia, che possono aiutare, possono portare beneficio.
Quindi va bene così, quindi viva quell’esercito di cani e gatti e asini e cavalli che ci fanno bene, che ci risollevano l’umore. Che poi, alla fine, l’umore, quando stai attraversando un periodo complesso, quando il medico di dà notizie che non avresti voluto conoscere mai, è quello che fa la differenza. I gatti, con quella loro indole indipendente, con quel musetto intelligente, sono tra gli animali più adatti a instaurare una relazione emotiva col paziente di turno: spiegano i ricercatori dello Stroke center dell’università del Minnesota, negli Stati Uniti (ma lo studio americano è giusto un esempio, ce ne sono a decine) che le loro fusa agiscono sul sistema nervoso, ci fanno rilassare i miscugli quando sono in tensione. In più amano molto giocare, sono divertenti e simpatici e questo serve (manco a dirlo) a tirare su il morale di chi, un morale, altrimenti, lo avrebbe a terra. Spesso sono utilizzati negli ospedali e nelle case di riposo per gli anziani, spesso possono essere “accuditi” da più persone alla volta, spesso quegli occhioni hanno l’effetto di una medicina. Forse non al corpo, ma alla mente sì.

 

LA PROVA La prova è nella foto di Allevi. Nel nostro Paese i primi convegni sulla “pet therapy” risalgono al 1987: fare un censimento, oggi, di quanti animali sono “impiegati” in questo senso non si può, perché i progetti sono a migliaia, gli esempi pure, le attività in corsia anche. Per i malati oncologi, per i bimbi, per gli “over” che magari soffrono la solitudine. Non si tratta di semplici coccole, sono qualcosa in più. Sono una “cura”. 

 

 

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