Buon compleanno direttore
Vittorio Feltri, 80 anni dalle stalle alle stelle: "Quella sua impresa disperata"
Vittorio Feltri compie domani 80 anni. Auguri, a nome dei tantissimi che ti vogliono bene, e a dispetto di chi per invidia ti vuol male – ma come si fa? -, ad multos annos! La biografia del fondatore di Libero è arcinota. Mi appresto a sciupargliela io. Il problema è che l’ha raccontata lui, scrivendola o dettandola in interviste. Ne è risultata ogni volta come una sonata al pianoforte, per tutte le età della sua vita, colorata di ogni umore, sfumatura, in semplicità totale, bambino, e in fondo rimanendo ancora bambino, ogni volta come una favola dei Fratelli Grimm. Perciò filare questa seta con altre mani ingarbuglia la matassa, spezza l’incantesimo, perché farla trasmigrare in un’altra prosa la fa parere una favola esagerata. Ho verificato, e quello che ha scritto e detto è stato tutto banalmente vero. Il fatto è che qualunque storia dai diciotto anni in su Vittorio Feltri abbia toccato con la sua penna (non ho letto i pensierini delle elementari) le ha fatto crescere le ali, verso il cielo o verso gli abissi. Neppure la sua è sfuggita a questo destino, con un’aggiunta di ironia malinconica. Del resto nessun grande pittore è sfuggito all’obbligo di ritrarre sé stesso con il proprio pennello, da Giorgione a van Gogh a Picasso (magari nascondendolo, come Leonardo, sotto il sorriso della Gioconda).
Ogni volta che ripercorre la sua infanzia al freddo, nella scuola con i vetri gelati e rotti, e la stufa senza legna (Feltri più della fame ancora oggi non sopporta il freddo, per questo, anche se non crede nell’aldilà, se mai ci fosse preferirebbe l’inferno, non solo perché come disse un noto teologo è vuoto, ma soprattutto per il clima); le lezioni di latino dell’amatissimo monsignor Angelo Meli; la morte della prima moglie con lui che torna dall’ospedale e fruga nervosamente nel frigorifero senza sapere cosa fa, sperduto (è la prima cosa che mi ha raccontato di sé, la prima volta che mi offrì lavoro nel ristorante da Roberto in corso Sempione, nel 1992, a un altro tavolo c’era Gianni Brera); la disperazione di trovarsi solo con due gemelle, la paura di perdersi, l’incontro con Enoe Bonfanti che gli salvò la vita, e il suo dividere con lei tutto, nell’imperfezione di ogni amore perfetto; la prima busta paga; Berlusconi in ginocchio che gli chiede di non abbandonarlo; le discussioni su Dio. Non è vero che si ripete.
Cambia punti di vista, gli anni filtrano i ricordi, mettono a fuoco l’essenziale. Ho paragonato gli articoli degli anni ’80 che mi parevano insuperabili e il Feltri racconta Feltri con Luciana Baldrighi del 1997, spiritoso e tagliente anche con sé stesso; ma i volumi di incontri degli ultimi anni – acquarelli leggeri e sculture bronzee -, e le interviste con Stefano Lorenzetto e Aldo Cazzullo hanno un’altra forza. Si cresce sempre, altro che 80 anni! Il talento certo non si merita, c’era anche da ragazzo, è un dono. Poi però va innaffiato con il sudore dell’esercizio, e la fatica di alzarsi prima dell’alba, andando alla scuola serale da vetrinista, e poi riempire pagine senza alzare la testa dal foglio e dalla macchina per scrivere. La sua forza è che fa credere di essere pigro.
LEGGENDE
Pigro Vittorio? È una delle leggende che il Grande Orobico ha diffuso su di sé per far crescere l’invidia. Mi ricordo i sabati pomeriggio, tutti i sabati pomeriggio di tutta la sua dannatissima vita, con quel ticchettare della sua Olivetti, e poi negli ultimi decenni, ancora ieri il frinire lieve dell’IPad, e lo immagino a cent’anni come il suo maestro incognito Prezzolini, a rifiutare di farsi scrivere gli articoli dall’Intelligenza Artificiale, dato che gli basterà la sua Stupidità Naturale per essere sempre e comunque infinitamente superiore alle sue stesse stupidaggini, figuriamoci a quelle degli altri. Pigro, Feltri? Ha diffuso un’altra immagine di sé, con lo stesso desiderio di farsi detestare, ma senza riuscirci, dalle persone buone che si specchiano nelle sue ribellioni al paraculescamente corretto. Ci tiene ai soldi. Ci tiene un sacco. Ma è un sacco bucato per i poveri, quelli che nessuno sa che esistono, ma lui sì. Nel buio precoce dell’inverno, e poi nella penombra della sua solita estate senza vacanze e senza neppure i week-end, me lo ricordo bene i primi sabati passati con lui a Il Giornale e poi a Libero.
Quando davano morti i giornali, e morto lui, con lo Champagne in ghiacciaia da stappare per salutare spanciati dal ridere il suo primo insuccesso che non arriva mai. Lo faceva per sé, ovvio, per la tigna di attraversare e sopravvivere e vincere, ma preoccupato per chi aveva portato con sé in avventure controvento, certo comunque che sarebbero balzati, dopo aver fatto bottino con lui, su navi piratesche di passaggio, sicuro dell’ingratitudine, e pronto a ridare un’altra occasione, incapace di rancore. So che questo è un altro Feltri rispetto a quello che viene insultato dalla vulgata dei cretini, pseudo antifascisti immaginari e comunisti autentici.
INTUIZIONI
Ha creduto nelle cause perse, facendole vincere. Ad esempio in quella del centrodestra, da lui preconizzato all’Indipendente quando chiese a Gianfranco Fini di togliersi la camicia nera e indossare quelle di non so più quale marca newyorchese (non mi intendo) e di allearsi con Bossi, cui aveva dato sostegno primo tra tutti sin da quando diresse l’Europeo, poi passando a Il Giornale a sostenere Berlusconi nell’impossibile combattimento berlusconiano dei ragazzi della via Paal contro la gioiosa macchina da guerra dei progressisti con i baffi di ferro, abbastanza arrugginiti. Senza però mai odiare né Occhetto né D’Alema cui ha portato ancora dieci giorni fa non richiesta solidarietà, perché? Perché è fatto così, Feltri. Il Giornale vedovo di Montanelli, che lo aveva abbandonato con le vele flosce a 110mila copie, pareva destinato alla chiusura, surclassato dalla Voce del medesimo Indro, veleggiante a mezzo milione di copie e con la crème intellettuale e finanziaria a riempirlo di lusinghe e di miliardi comunisti. Sentivo il campanello che segnalava l’a-capo, un’altra riga, e pensavo altre mille copie in più, diecimila, centomila in più.
Quindi Libero, impresa disperatissima, considerato non un naviglio, ma la Zattera della Medusa, senza viveri e con equipaggio scarso. Ed ecco che Montanelli benedice, unico profeta di un buon approdo. Che dire? Siamo qui. Siete qui. Con chi? Ma certo, con Vittorio. Insisto nello sciupare la sua biografia. Nato a Bergamo il 25 giugno 1943, presto orfano di padre, emigrato da bambino con il tutore in Molise, lì ha imparato a convivere con i cavalli, in fondo le sole persone che stima e con cui si confida; tornato nella città natale è stato istruito da un prete magro con le calzette rosse; lavorava di giorno, studiava di sera; quel monsignore gli ha insegnato il latino, ha coltivato in quel chiodo testardo la virtù dell’ironia, infine l’ha raccomandato per scrivere su un giornale di proprietà di preti e diretto da un altro prete, da lui ricambiati con un sentito ateismo, l’otto per mille, e un affetto profumato di nostalgia e di tabacco.
Ho dimenticato qualcosa?
Direi tutto. In ordine sparso e casuale: Gaber, Gimondi, Giovanni XXIII, Meloni, Angelucci, don Mansueto, il Pinot nero, Oriana Fallaci, Muti, Di Pietro, il pittore Donizetti, Colleoni, il ds del ciclismo Stanga. Don Spada e Nutrizio, Biagi e Bocca. Belpietro e Sallusti. Isotta! Summertime suonato durante la consacrazione con il prete che si finge furioso e ride; la volta che fece il chierichetto a Pechino, dove fu travolto dal fiume di migliaia di biciclette, e dal corteo di cinesi con la gabbietta e il canarino da passeggio; Lunardi e il miracolo della Valtellina salvata dalle acque, i gatti, il topolino nutrito amorevolmente nella sua casa in affitto con Enoe e i bambini ad Arcere, nella campagna bergamasca. Il manicomio. Il brefotrofio. Aborto mai. Quante persone, cose, inezie preziose. Le sue ire. Il tacere le sue pene. Ci sono essenze che se provi a stringerle, sfuggono. Lui è così. Le grandi anime sono così. Preferiscono sembrare stronze, per non pesare e non indurre riconoscenza. Ad multos annos!
P.S. Caro Vittorio! Per ragioni di legittima difesa ho cercato di dissuadere il direttore Alessandro Sallusti dal porgerti omaggio. Gli ho spiegato, ma lo sa bene anche lui, che fuggi come la peste le celebrazioni, i panegirici, i sermoni, i compleanni e i funerali propri e altrui. E poi perché io? Niente da fare. Ha scelto me come agnello pelato, bianco, grasso, perciò perfetto per i sacrifici rituali. A proposito di una vecchia questione tra noi, che tu hai voluto mettere in piazza. Ribadisco: Dio c’è, e tu gli stai pure sui coglioni. Mi sa pertanto che sono io ad aver bisogno di auguri. Comunque, tanto per perfezionare il mio suicidio, buon genetliaco!