Cultura

Alan Moore e il pentimento sul "supereroe fascista"

Francesco Specchia

Sembra uno dei suoi urticanti paradossi narrativi. I detrattori sostengono che tutto il suo piglio da hippie, quel capello lungo e con quel volto lanuginoso e selvatico a metà fra Henry David Thoreau e Mauro Corona, be’, Alan Moore abbia ecceduto nella sua dose storica di peyote.

I sostenitori, invece, ne accolgono come un j’accuse politico l’addio ai fumetti di supereroi perché “quella specie di infantilizzazione - la spinta verso tempi e realtà più semplici - può essere spesso un precursore del fascismo”. Cioè Batman, Spiderman e soci nasconderebbero, sotto il costume l’orbace d’ordinanza (anche loro, come la Meloni!).  Sia come sia, il congedo (bisogna vedere quanto definitivo, gli addii di Moore al fumetto sono come quelli dei Kiss alla musica) da quel mondo dei comics che l’ha consegnato alla storia, rende Moore, classe ’53, scrittore “e “anarchico britannico” l’argomento più di tendenza tra quelli pubblicati dal Guardian. In un’intervista al quotidiano inglese Moore ha infatti collegato l’imperante, smodata passione per i supereroi all'avvento del fascismo e all'elezione di leader populisti come Donald Trump: “Lo dissi già attorno al 2011, pensavo che milioni di adulti che si mettevano in fila per vedere i film di Batman avessero implicazioni seriamente preoccupanti”. Tra l’altro, io ero nella fila. “Penso che ci sia stato un fraintendimento di ciò che è successo negli anni Ottanta - di cui mi assumo anche io una dose di colpa, anche se non intenzionale” ha continuato Moore “quando sono iniziate a uscire cose come Watchmen. Un sacco di giornali titolavano ‘I fumetti sono diventati adulti’". Moore rifiuta questa pretesa maggiore maturità dei fumetti: “Ci sono pochi titoli che sono diventati più adulti di quanto si fossi abituati. Ma la maggior parte son rimasti gli stessi, anzi i fumetti si sono livellati con l'età emotiva del pubblico che li incontrava”.

Ora, Watchmen, assieme a V per vendetta, è stato proprio il capolavoro di Moore. Era un romanzo grafico che si sviluppava attorno alla realtà ucronica dell’America ai tempi della guerra del Vietnam, in cui i supereroi si rivelavano in parte psicopatici, sessualmente reprobi, violentatori, ladri, assassini; la forma d’ipocrisia più oscura di una società in cui Nixon vinceva le elezioni a vita. Poi Moore si è reso colpevole, appunto di V per vendetta, in cui ripercorreva il mito anarchico della congiura delle polveri sotto Buckingham Palace, dove la maschera del protagonista ispirata a Guy Fawkes diverrà modello del movimento hacker Anonymous, con orgoglio silente dello scrittore. I testi di Moore montano sempre come una marea immaginifica e lussureggiante di citazioni: Edgar Rice Burroughs, Edgar Allan Poe, Ray Bradbury, HP Lovecraft e, soprattutto, Mervyn Peake, senza contare il ritmo di un Charles Dickens che s’è fatto di acido lisergico. La sua Lega degli straordinari gentiluomini addirittura esalta i supereroi dell’immaginario vittoriano –Allan Quartermann, l’uomo invisibile, Mister Hyde, il capitano Nemo- e li rende campioni d’incassi, soggetto di film di successo e materia di studio universitario. Poi Moore ha firmato decine di sceneggiature di Superman e Lanterna Verde della Dc Comics. E’ stato, in sostanza, uno dei più rivoluzionari del settore, parlare di sua “dose di colpa” è riduttivo.

Moore è l’espressione più spinta del Labour, per non dire della sinistra più anarchica inglese. E la sua uscita di fine carriera, in realtà, riattizza una vecchia polemica sociale e politica con il suo omologo nonché nemesi, l’americano Frank Miller. Classe ’53, disegnatore e sceneggiatore raffinatissimo, Miller sarebbe per Moore, colpevole di aver pubblicato un capolavoro diametralmente opposto al suo. Ovvero Il ritorno del Cavaliere Oscuro, in cui un Batman sessantenne sarebbe “un fascista sociale”, violento e repressivo, sessulmente represso e gonfio di un senso dell’onore pericoloso. Tra l’altro Miller è anche colui che ha dato in pasto alla stampe 300, sull’impresa degli Spartani alle Termopili e  Sacro terrore iperscorretto contro l’estremismo islamico. Tutto il contrario della deriva woke e della narrazione fatta di orientamento sessuale vario o identità di genere, di origini etniche o di disabilità tipica dei liberal e dei fumetti di Moore. Moore amato dai democratci di ogni dove, Miller da essi considerato un pericoloso destrorso, e per questo adorato dalla destra. Sono due visioni del mondo che cozzano da sempre. Eppure il supereroe originale, sin dalla lettura che ne dà Umberto Eco nel Il mito di Superman in Apocalittici e integrati del ’64 è tendenzialmente una creazione nicciana. Rappresenta un’idea di forza e coraggio, netta, senza sfumature, individualista ai limiti del solipsismo. E’ una figura che –la Storia insegna- troneggia nell’immaginario di massa proprio nei momenti di difficoltà (dal New Deal rooseveltiano alla pandemia); consente alle speranze del popolo esausto di aggrapparsi al suo mantello invincibile. Legge e ordine, uomo forte, bene e male tagliati con l’accetta. Sono concetti di destra, destinati a essere digerito e rielaborati a sinistra, in tempi per la sinistra migliori. Che non sono questi. Ora ascoltando le parole del grande Moore pare d’avvertire l’eco di quello dello psichiatra Fredric Wertham; il quale, pubblicando nel 1954 il saggio La seduzione degli innocenti, che metteva in guardia dai fumetti, dipinti come una forma deteriore di letteratura popolare e causa di delinquenza giovanile. Esattamente la teoria contro cui Moore si è battuto tutta la vita…