L'intervista

Valentino Valentini, bomba del consigliere di Berlusconi: "Usa troppo deboli, c'è solo una cosa da fare...", tutto torna?

Alessandro Giuli

Valentino Valentini, deputato di Forza Italia, è l’uomo che ha accompagnato l’ex premier Silvio Berlusconi nelle visite istituzionali a Mosca e ha partecipato a quel capolavoro diplomatico che fu l'accordo di Pratica di mare, base militare italiana nella quale il 28 maggio del 2002 - sotto gli auspici di Palazzo Chigi - i rappresentanti di 19 Stati membri della Nato fra i quali il presidente americano George W. Bush sottoscrissero una storica intesa con la Federazione Russa: la Dichiarazione di Roma. L'onorevole Valentini, poliglotta e interprete di Realpolitik lucidissima, di fronte al conflitto russo-ucraino ha appena dichiarato alla Camera dei Deputati che «la Storia ha aperto nuovo capitolo e nulla tornerà come prima»... l'Italia non deve avere dubbi su quale parte scegliere tra i fronti in lotta: «Quello dell'Occidente, al quale si sceglie liberamente di appartenere e che aiuta a difendere l'Ucraina a non venire inglobato in quello Russo con la forza delle armi».

Le sanzioni e il soft power non bastano più? La nuova parola d'ordine è hard power?
«Direi che la nuova parola d'ordine è "sharp power" ovvero il termine coniato per definire l'uso delle informazioni e dei social media come strumento di manipolazione e ingerenza che ha trasformato la propaganda di un tempo in una forma di comunicazione sinergica allo sforzo militare».

Lei lo conosce bene Putin; è cambiato lui negli ultimi anni o siamo noi che ci eravamo distratti?
«Uno degli errori più diffusi è voler presentare il pensiero Putiniano come un corpus ideologico fisso, il pensiero di Putin ha seguito la tumultuosa traiettoria compiuta dal suo Paese negli ultimi vent'anni, utilizzando e adattando concetti teorici che rispecchiavano le varie fasi: dalla verticale del potere all'eccezionalismo russo, dalla difesa della cristianità alla prosecuzione della grande guerra patriottica. Non ci siamo distratti, abbiamo cercato di tenere la Russia legata a noi, siamo stati i fautori di una politica che gli americani hanno definito di engagement, e come noi hanno tentato tutti i Presidenti, da Bush "che ha guardato negli occhi Putin e ha visto la sua anima" a Obama che ha tentato il reset con Medvedev, da Trump che ha cercato di fare una nuova Helsinki a Biden che ha incontrato Putin a Ginevra all'inizio di mandato. Sicuramente non siamo riusciti a trovare un compromesso sulle esigenze strategiche della Russia, forse ci siamo ostinati sulla nostra strada e in definitiva invece di legare la Russia a noi, è lei che ha legato noi, ma lo abbiamo anche fatto nella consapevolezza che il fallimento di tale politica lasciava solo una alternativa: il containment nel quale siamo meno bravi e di cui ora vediamo tutte le conseguenze».

 

 

Ci spiega come fu possibile l'accordo di Pratica di mare - con quell'accordo nasceva un Consiglio a 20 (Nato+Russia) vincolato a un patto di mutua consultazione e assistenza in materia di sicurezza e terrorismo, non proliferazione delle armi di distruzione di massa, operazioni di salvataggio in mare, cooperazione militare e riforma dei sistemi di difesa e d'intervento nelle emergenze civili - e perché negli anni è annegato nel nulla?
«Là eravamo agli inizi della presidenza di Bush al culmine della fase di engagement, ovvero la politica di inclusione della Russia verso una nuova architettura di sicurezza che doveva comprendere i Paesi l'Europa post-sovietica e la Russia stessa. Fu anche il culmine della nostra politica di inclusione che ritengo fosse animata da una volontà più forte di quella dell'amministrazione americana, dove sempre albergavano i falchi che rimanevano scettici nei confronti di Mosca che iniziava a mostrare segni di insofferenza. Quest'ultimi, infatti, ritenevano che una tale nuova architettura avrebbe visto la creazione di una potenza rivale all'interno di una nuova struttura allargata. Il presidente Berlusconi invece pensava veramente di aver lasciato alle spalle la guerra fredda. Ricordo che la soddisfazione più profonda che provò al G8 di Genova fu alla cena finale con i leader del mondo quando ebbe la sensazione che si fosse chiusa una delle pagine più buie della storia dell'Umanità. E fu proprio il suo entusiasmo e l'affidabilità che avevamo dimostrato come partner atlantico in quella fase molto delicata che riuscì a contagiare Bush e Putin nel procedere speditamente verso l'accordo che fu siglato nel Vertice di Pratica di Mare».

Che cosa dobbiamo aspettarci da Putin... che cosa c'è nella sua testa?
«Possiamo soltanto cercare di guardare ai fatti: dopo il fallito tentativo di un colpo di mano per decapitare il governo e insediare una amministrazione fantoccio, si è cercato di prendere Kiev con la forza e dinnanzi alla resistenza ucraina e alla sorprendente inefficacia dell'Armata Rossa si è ripiegato sulle zone del Donbass verso una guerra di attrito nella quale a fare la differenza sarà la disponibilità di mezzi e di munizioni. Credo che Putin conti sul fatto che l'Europa non sia in grado di tenere sulle sanzioni per via delle ricadute sul prezzo e la disponibilità dell'energia e della crisi alimentare che sta per scoppiare a livello globale, la cui responsabilità attribuirà all'Occidente».

C'è il rischio di un conflitto globale con armi convenzionali nel resto d'Europa?
«Il rischio va sempre tenuto presente, l'Ucraina è circondata da Paesi Nato e vi è il rischio che per via dell'articolo 5 del trattato non si inneschi automaticamente un conflitto con l'Alleanza Atlantica. La preoccupazione è tanta, nessuno invia armi, poche o tante, a cuor leggero. Dietro ogni colpo sparato c'è morte dolore e devastazione. Non credo però che se avessimo girato la testa dall'altra parte e lasciato che la Russia conquistasse l'Ucraina manu militari ora ci sentiremmo più sicuri, né avremmo evitato morte e dolore al popolo ucraino. Tantomeno potremmo dirci con la coscienza a posto se ora smettessimo di aiutare l'Ucraina nel bel mezzo di un conflitto di attrito dove ciò che più conta è la disponibilità di mezzi e di munizioni».

 

 

Davvero dobbiamo temere un'escalation nucleare?
«Materialmente è possibile, ma realisticamente non è probabile. Ma non dobbiamo compiere l'errore di fare finta che non esista e non parlarne. Anche perché abbiamo visto come il calcolo delle probabilità possa essere smentito in fretta. Tantomeno dobbiamo commettere l'errore di dare l'impressione di piegarci alle minacce. E guardi glielo dico con la pelle d'oca e dopo una lunga riflessione. Questa crisi deve insegnarci a non mettere la testa sotto la sabbia. Il nostro comportamento di adesso determinerà il nostro futuro. La Russia non è il solo Paese dotato di armi nucleari. La Corea del Nord ci osserva, la Cina misura col sismografo ogni nostra reazione... e i paesi dotati di armi nucleari sono tanti e temo che reazioni sbagliate ne possano soltanto favorire la proliferazione».

L'Italia rischia di rivelarsi di nuovo "l'Italietta" che tentenna di fronte al riarmo dell'Occidente e al sostegno militare a Kiev?
«Se indeboliamo il nostro premier e quindi la nostra autorevolezza con continui distinguo e ripensamenti a uso interno, all'esterno rischiamo di risultare inaffidabili. Certe decisioni, prese in modo democratico, sono troppo importanti e devono rimanere di carattere strategico e non soggette alle convenienze di alcuni esponenti politici. L'italia deve mostrarsi ferma ma affidabile per poter svolgere il ruolo naturale di honest broker che la nostra storia ci assegna».

Bruxelles può avere un ruolo più autonomo rispetto alla Nato? In fondo Macron non sembra parlare la stessa lingua di Biden e Stoltenberg...
«L'Europa può e deve farlo, ma autonomia significa farsi carico di una parte importante delle nostra difesa, che per disegno o convenienza abbiamo appaltato all'Allenza per molti anni e questo comporta anche una revisione dei meccanismi decisionali. La situazione cosi com'è non può più reggere anche perché è evidente gli Usa non sono più in grado di tenere su vari fronti contemporaneamente ed è per questo stanno cercando di rimettersi al centro di una fitta rete di alleanze e di rapporti. Trump con America First è finito America Alone, cioè da primo che voleva essere si è trovato isolato, Biden dopo la debacle in Afghanistan cerca di serrare le fila con gli alleati ma si ritrova un occidente che ormai si è molto ristretto».

Biden vuole soltanto sconfiggere Putin o anche un regime change a Mosca?
«L'unica cosa che Biden può fare è sostenere l'Ucraina a difendersi affinché si arrivi a un cessate il fuoco e alla pace. Gli altri obbiettivi non mi paiono raggiungibili e in ogni caso se vi fossero dovrebbero essere taciuti».

E se ci fosse stato Trump al suo posto?
«Un detto olandese dice "i migliori marinai sono sempre quelli che guardano dalla riva..". Non vorrei però che le imminenti elezioni di mid-term che vedono coinvolto l'ex Presidente nell'appoggiare alcuni candidati repubblicani alle primarie spingesse il Presidente Biden a reagire in risposta alla pressione elettorale con una escalation di tipo verbale che non aiuta certo a mantenere aperta la porta del dialogo».