Il Dostoevskij dei supermercati

Thompson, il portiere di notte che inventò il noir

Francesco Specchia

La fotografia meno rappresentativa di Jim Thompson è quella di lui, negli anni 30, ben rasato e pettinato, in cravatta, che guarda in tralice un soriano. Lo sguardo è quello paraculesco e sussiegoso di quando Jim faceva il facchino e poi il portiere di notte in un hotel a ore, specializzato nel procurare ragazze e droga e alcol (di cui fruiva abbondantemente) a gangster famigerati. I quali, in cambio, gli fornivano materiale a carrettate per i romanzi noir che avrebbe scritto nei momenti di lucidità dall’abuso di cocaina, divincolandosi dalla cripta di fumo delle sue 60 sigarette al giorno. Thmpson era l'esatto contrario dei quel che appariva.

D’altronde Jim aveva imparato a inalare tabacco e a sedurre donnine a tredici anni, facendo imbestialire gli insegnanti a causa degli insegnamenti dissennati di un nonno bestemmiatore dell’Oklahoma. Queste tranche de vie e molte altre fanno parte di Bad Boy (HarperCollins, pp 297, euro 15), biografia del grande scrittore americano, che è anche il ritratto spietato di un’America in preda alla Grande Depressione. Thompson, animo irrequieto e “cattivo ragazzo” per vocazione, è quel che si dice un mito sottotraccia. Si è spostato in cerca di fortuna tra l’Oklahoma, il Nebraska e il Texas per tutta la vita. Ha scritto 30 romanzi di anima noir a cavallo degli anni ‘40 e ‘50 del secolo scorso (“Hobo”, vagabondo sentimentale, dicono gli americani), di cui i migliori restano: L’assassino che è in me, Notte selvaggia, Getaway, L’altra donna, Colpo di spugna, Rischiose abitudini, Rapina a mano armata (questi ultimi diventati film di Bernard Tavernier, Stephen Frears e Stanley Kubrick col qual scrisse il capolavoro pacifista Orizzonti di gloria), Tornerò per farti fuori.  Jim ha pure ispirato i grandi autori del delitto da Hammet a Chandler; ha seminato il terreno delle Beat Generation; non per nulla veniva chiamato dal collega Geoffrey O’Brien “il «Dostoevskij dei supermercati» uso a descrive l’America economicamente e moralmente in procedura fallimentare. Un paese irredento che aveva come unica certezza il brulicare di un’umanità perduta nei centri commerciali durante i week end.

Secondo i criteri del professor Stephen King, tre sono gli autori che hanno acceso e nutrito la letteratura di genere dell’ultimo secolo: Richard Matheson, Ray Bradbury e Jim Thompson. La differenza con gli altri è che Thompson era quello che scriveva. Aveva vissuto mille vite e mille lavori: venditore di penne stilografiche, fattorino d’albergo, gestore di una sala cinematografica, giornalista, manovale, caddy sui campi da golf, attore, estrattore di legname dalle miniere, spacciatore di alcolici e, non ultimo, scrittore. Ma, con la sua aria sonnolenta e dinoccolata abbastanza stridente su un omone di un metroenovanta, Jim era stato pure, di volta in volta: sceriffo della contea di Caddo in Oklahoma, operaio dell’industria petrolifera, avvocato e contabile (senza averne il titolo), rappresentante di generi vari. Il bello è che sapeva scrivere dannatamente bene. Per esempio dall’esperienza di operaio batta lì: “C'erano due fossati, venti generatori elettrici, un escavatore, camion e trattori. C'erano scorte di petrolio e benzina, pile di gomme, tubi, candele d'accensione e centinaia di altri accessori.
Il mio lavoro era vigilare su questa roba. Per tutta la notte camminavo su e giù per le tubature, attraversando a un certo punto il Pecos. Avevo una lampada a gasolio a prova di pioggia e un fucile a ripetizione. Le mie istruzioni alla lettera erano di - sparare a qualsiasi figlio-di-puttana si facesse vedere e poi magari fargli qualche domanda. All'inizio il lavoro mi piaceva abbastanza”. Del suo incontro con un vicesceriffo che voleva ammazzarlo per una multa non pagata riferì. “Non sapevo se mi avrebbe ucciso, perché non lo sapeva nemmeno lui.Alla fine, quando maturai, riuscii a ricrearlo sulla carta, l'omicida sardonico del mio quarto romanzo, L'assassino che e in me. Ma ci misi molto tempo per farlo, quasi trent' anni. E ancora non me lo sono tolto dalla testa”. Sull’inevitabile destino dei braccianti degli Usa, Jim fa parlare Hazel Motes, il sinistro protagonista de la Saggezza nel sangue: «Il luogo da dove venite non c’è più, quello dove credevate di essere diretti non è mai esistito, e il luogo in cui vi trovate ora non ha senso, a meno che non riusciate a scappare via subito. La coscienza è solo un trucchetto: non esiste. E se invece credete di averla è meglio che la tiriate fuori, dovunque ce l’abbiate nascosta, le diate la caccia e la uccidiate». Insomma. Fallimenti, malaffare, gioco, truffe e mignotte erano il suo pane; lo scrittore viveva come uno dei suoi personaggi alla perenne ricerca di un riscatto. Era  l’America che si sveglia di colpo sulle frattaglie del proprio sogno. Lo si nota sin dagli albori della sua biografia, quando la sorella maggiore Maxine convince due bambini neri che, in cambio del bottiglione di latte che avevano in mano, lei avrebbe potuto «farli diventare bianchi»; affidando poi l’incarico al piccolo Jim che si preparava a strofinarli a dovere munito di saponetta e spazzolone sul retro della casa prima che la madre interrompesse quel rito imbarazzante. Ecco il punto. Jim Thompson ha fatto della sconfitta la stella polare della letteratura. “La sua voce divenne un calmo sussurro, la calma intesa sulla superficie di una furiosa tempesta sotterranea”, scriveva cercando di fare ingollare al gatto un sorso di bourbon…