A tutto campo

Franco Carraro, un'incredibile confessione: "Quando ho lasciato Mandela da solo in Campidoglio"

Giovanni Terzi

«Mio padre è stato un uomo che mi ha molto amato e, posso dire, anche viziato. Ero figlio unico di un papà che a tredici anni aveva iniziato a lavorare per poter pagare i debiti di mio nonno e così, faticando, ha costruito il proprio benessere e quello della nostra famiglia». Chi parla è Franco Carraro, già sindaco di Roma, ministro della Repubblica e presidente della Federazione Gioco Calcio: un uomo che ha alle sue spalle una miriade di esperienze importanti in centri di potere del nostro Paese e che ha ben presente il valore morale delle proprie radici. «L'uomo - come scriveva Victor Hugo in "Oceano" - è una strana creatura con ali e radici», dove le ali servono per volare ma le radici sono lo strumento per resistere alle intemperie della vita.

Dottor Carraro, lei mi raccontava che suo padre la viziava?

«Per mio padre vedermi crescere sano e studioso, frequentante delle autorevoli scuole, era motivo di riscatto sociale e di soddisfazione personale. In fondo voleva regalarmi tutto quello che lui non aveva potuto avere. Detto questo, era un grande educatore: di lui ho il ricordo di quando andavamo in vacanza (ed una volta erano lunghe, in estate) in cui mi obbligava a scrivergli una lettera al giorno».

E perché?

«Perché in questo modo ero impegnato in qualcosa che non fosse solo gioco e svago». Lei è stato un campione di sci nautico, da giovane. Come ha scelto quello sport, visto che è nato a Padova? «Intanto vivevamo a Milano, e andavano in vacanza a Santa Margherita Ligure. Ma le devo dire che iniziare lo sci nautico fu una vera casualità».

Me la vuole raccontare?

«La mia famiglia decise di comprare una barca, una Utility del cantiere di Chiavari: era il 1953. Così andammo alla Fiera Campionaria di Milano, dove c'era una parte dedicata alla nautica, e fu lì che vedemmo lo stand del cantiere Riva di Sarnico. A quel punto mio padre mi disse: "Se compro questo, farai sci nautico?", Alla mia risposta affermativa, il motoscafo fu comprato e io così iniziai».

Certo, ma dal fare sci nautico a diventare campione europeo un po' ne passa...

«Mi piaceva come sport e mi veniva bene, pensi che il motoscafo lo guidava mia mamma. Poi nel 1954 mi hanno detto che c'era una gara proprio a Santa Margherita. Partecipai e vinsi. Da quel momento, costringevo mia mamma a guidare il motoscafo per allenarmi e non mi fermai più».

Lei a ventinove anni divenne presidente del Milan.

«Ventisette anni, per l'esattezza. Avvenne subito dopo che mio papà Luigi morì per colpa di un infarto. Papà era già entrato nel consiglio di amministrazione della società rossonera, diventandone prima vice presidente e poi presidente. Per un anno si allontanò dalla società perché non condivideva qualche azione di Felice Riva, l'allora presidente. Poi toccò a me, dal 1967 al 1971. Vincemmo tutto!».

 

 

Che squadra era il Milan di quegli anni?

«Una squadra eccezionale. Inizialmente era allenata da Arturo Silvestri, persona perbene che però non riusciva a gestire emotivamente la pressione di tutti i giornalisti presenti quotidianamente a Milanello».

La pressione era peggio di oggi?

«Era diversa. A Milanello ogni giorno c'erano venti giornalisti che scrivevano quotidianamente di ciò che avveniva. Silvestri non era in grado di reggere questa tensione emotiva, così arrivò Nereo Rocco»

Che tipo era Rocco?

«Una persona straordinaria con una origine culturale austroungarica ma contemporaneamente di un umorismo davvero unico. Rocco era di due anni più giovane di mio papà e quindi potevo essere tranquillamente suo figlio ma, detto questo, appena mi vedeva e nonostante la mia giovane età, portava una educazione e un rispetto davvero esemplari. Era un uomo semplice Nereo Rocco e, mi creda, molto di ciò che ho imparato lo devo a lui».

 Diceva che aveva senso dell'umorismo? A vederlo non sembrava...

«Era graffiante e quando doveva rispondere a una provocazione, magari di Herrera, lo faceva con umorismo».

In quel Milan giocava un certo Pierino Prati, ma soprattutto Gianni Rivera.

«Prati fu una vera e propria fortuna per la squadra, e divenne capocannoniere del campionato 1967/68».

E Rivera?

«Rivera non si discute, un talento incredibile sia in campo che fuori. Un uomo dotato di due piedi straordinari che voleva emergere complessivamente nella vita. Mio padre, dopo la sconfitta della nazionale contro la Corea, lo fece capitano. Aveva ventidue anni e si comportava da leader, offrendosi con generosità ai compagni».

Lei, dottor Carraro, è nato a Padova, cresciuto a Milano e ha fatto il sindaco di Roma. Come è stata l'esperienza di amministrare la Capitale?

«Il popolo romano è generoso e leale. Un mio avversario per le elezioni a sindaco era Oscar Mammì, che andava in giro denigrando la mia fede calcistica, milanista, e le mie origini, nordiche. Nonostante questo, presi tantissimi voti e venni eletto sindaco. Ma la stessa cosa accadde a Rutelli, laziale (che per un romano doc è peggio che essere milanista), e Veltroni, che è sempre stato juventino. Detto questo, l'esperienza da sindaco è stata la più intensa che abbia mai fatto: è come essere capo di Stato maggiore, ma vivere in trincea»

In che senso?

«Le racconto un esempio. Venne Nelson Mandela a Roma per avere la cittadinza onoraria. Mentre la stavo consegnando, mi avvisarono che c'erano dei cittadini sfrattati appesi a un cornicione, e dovetti andare via».

 

Ha un momento che ricorda in modo particolare nella sua vita politica?

«L'incontro a Mosca con Gorbaciov e la sua utopia di un comunismo che si concilia con la libertà. Impossibile: con il comunismo non puoi essere libero. Ma oggi che è scomparso, è peggio».

Cosa vuol dire?

«La scomparsa del comunismo non è un fatto solo positivo, perché un tempo il sistema capitalistico era più attento a dimostrare che si stava meglio con il capitalismo. Oggi, senza comunismo, c'è una maggiore forbice tra ricchi e poveri».

Lei fu ministro e sindaco socialista. Qual è la sua idea su Bettino Craxi?

«Ha commesso errori, ma è stato anche sfortunato. Lui credeva nella indipendenza economica del partito e disse alla base "pensateci voi", ma sono certo che non esisteva nessuna volontà di arricchimento personale. Bettino è stato uno statista e un riformista vero».

Torniamo a Roma e al chiaro degrado della città: a cosa è dovuto, secondo lei?

«Forse è dovuto al fatto di delegare tutti i servizi alle cooperative? La sensazione è che il sindaco non abbia il controllo di molte cose».

E lei cosa farebbe per far ripartire Roma?

«Inizierei dallo straordinario, unico patrimonio artistico della città, favorendo un turismo culturale che secondo me è decisivo. Ma anche organizzando eventi di alto profilo internazionale, che richiamino attenzione sulla nostra città. A Roma abbiamo, solo a titolo di esempio, l'Accademia di Santa Cecilia, tra le maggiori istituzioni musicali nel mondo: me lo ha detto Leonard Bernstein, ma è da tutti riconosciuto. Così come la Scala a Milano è il top nella musica lirica, così l'Accademia di Santa Cecilia lo è perl musica sinfonica. Ecco, vedo un evento internazionale di festa della musica Sinfonica».

Un ultima domanda, dottor Carraro: chi vede bene per la lotta al Quirinale?

«Non faccio nomi, ma deve essere rappresentativo della stragrande maggioranza del Parlamento. Non si può eleggere un presidente, in questa situazione storica, che non corrisponda alla maggioranza di governo. Diventerebbe un problema per il paese».