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Nicola Porro su Fedez e Ferragni: "I minus habens che li prendono sul serio"
«Senza rinascita niente è del tutto vivo», diceva la filosofa María Zambrano. È da questo spirito che viene fuori La ripartenza, kermesse organizzata da Nicola Porro il 17 e il 18 luglio al teatro Petruzzelli di Bari. Un momento di ritrovo di grandi imprenditori, manager e direttori d'azienda, ma anche politici e volti noti di spettacolo e cultura, uniti per lanciare una missione finalizzata alla ripartenza dell'Italia. Nel nome dei principi liberali, cari al suo organizzatore.
Porro, perché il nome Ripartenza? La preferiva ad altre tre R come Ripresa, Resilienza, Recovery?
«Io ho iniziato a programmare questo evento oltre sei mesi fa, quando nessuno pensava alla ripartenza, perché il Paese era stato appena richiuso. Allora l'unica R di cui si parlava era la più insopportabile: Resilienza. A me fa schifo quella parola. Non vuol dire niente, se non il fatto che dobbiamo sopportare tutto. Noi lanceremo il messaggio opposto: dobbiamo convivere con la pandemia, non chiuderci in casa e rinunciare alla nostra libertà».
La ripartenza evoca un'azione di calcio, il contropiede. Dopo aver fatto catenaccio, è tempo di contrattaccare?
«A me non è mai piaciuto il catenaccio. In questo caso abbiamo fatto ancora peggio: abbiamo messo le catene agli italiani, chiudendoli in casa. Adesso ci tocca immaginare un mondo che non sarà molto migliore di quello che abbiamo lasciato, perché questa chiusura non ci ha fatto per niente bene. Non è vero che siamo diventati migliori dopo il Covid: anzi, sarà difficilissimo riportarci al livello di benessere di 20 o 30 anni fa».
Lei ha coinvolto personalità del mondo produttivo ed economico. Non il governo, ma le imprese salveranno il Paese?
«Sì. Ora stiamo gioendo per i soldi del Recovery Fund, ma occhio: arriveranno 230 miliardi, di cui 170 sono a debito. E io non ho mai visto nessuno godere per avere assunto un debito. Sento dire: "L'Italia oggi si può finalmente indebitare". Ah be', bella notizia... Invece si riparte solo se ripartono le imprese italiane, se esse tornano a macinare profitti, ad assumere e dare una prospettiva al Paese. Se aspettiamo che la prospettiva arrivi dai ministri o dalla pubblica amministrazione, siamo dei pazzi».
La ripartenza diventerà un appuntamento fisso?
«Sì, voglio farne una convention annuale del mondo liberale, ispirata ai principi del pragmatismo anglosassone, in cui coinvolgere anche conservatori, cattolici, libertari. Mi rivolgo a un mondo vastissimo che va da Buttafuoco a Giubilei, da Mingardi a Sgarbi. L'obiettivo è dare una casa ai liberali: noi siamo specialisti a litigare con quelli che ci sono più vicini. Ma non è possibile che la destra sia così divisa, urge un terreno comune».
Sta anche pensando di scendere in campo?
«No, ho un obiettivo più ambizioso: fare con il mio sito, nicolaporro.it, ciò che aveva fatto Montanelli nel '74. Beninteso, io non sono Montanelli, né voglio paragonarmi a lui. Ma la spinta è identica. Allora lui creò Il Giornale, trovando insopportabile il conformismo del Corriere della Sera e della sinistra che firmava appelli. Ora il nostro sito è diventato una testata giornalistica in risposta al giornale unico del virus, a quella stampa monopolista che considera la libertà un incidente della storia e denigra chi si definisce di destra. Il nostro monito è: non vergogniamoci di essere di destra né limitiamo la destra a quell'etichetta cui l'hanno ridotta i teorici dell'egemonia culturale di sinistra».
Come riparte la politica?
«È in una fase calante. Anche i civici sono una presa per i fondelli: la politica si nasconde pensando di farsi scudo con personalità della società civile. Ma è una forma di ipocrisia oltreché la più grossa vittoria dei grillini. Per anni ci siamo sentiti dire che la Casta fa schifo, e ora si ha paura a candidare uomini della Casta».
La giustizia riparte dopo l'intervento della Cartabia?
«No, la presunta riforma Cartabia è un'altra presa per i fondelli. È ridicolo presentarla come una grande riforma della giustizia, quando invece si limita a cambiare una normetta (prescrizione e tempi dei processi in Appello e Cassazione, ndr) del testo di Dj Fofò, alias ex ministro Bonafede. L'azione della Cartabia va letta in un altro senso: lei sta facendo legittimamente una partita per diventare capo dello Stato. Ha capito che, nella follia conformista di questo momento, il fatto di essere donna rappresenta un plus per arrivare al Colle. E, in maniera opportunistica, fa le cose utili per diventarlo. Io credo però che l'unica via per riformare la giustizia siano i referendum: dal basso può venire un grandissimo schiaffone che porti i politici a cambiare le cose. Il referendum serve a rendere pop il tema giustizia, che non riguarda solo quattro legulei».
Da liberale, come valuta il ddl Zan?
«Per me il testo, soprattutto l'articolo 4 che legittima la magistratura a intromettersi nella nostra libertà di espressione, è un abominio. Io non solo non approverei il ddl Zan, ma revocherei la legge Mancino, al quale l'altro si ispira. Un liberale come me non può amare un codice penale fatto di eccezioni».
È scoraggiante vedere il dibattito sul tema alla mercé di Ferragnezan, la creatura a tre teste composta da Ferragni, Fedez e Zan?
«Guardi, io trovo geniali Ferragni-Fedez come imprenditori. Ma sono dei minus habens quelli che li prendono sul serio dal punto di vista politico».
Un partito unico del centrodestra le piacerebbe?
«La Lega di oggi, tra flat tax e referendum sulla giustizia, è molto simile a Forza Italia. L'ipotesi che mettano su un partito unico la trovo coerente coi fatti e con una ragione ideale. Né mi scandalizzerei se, a guidare una forza liberale, ci fosse Salvini».