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Franco Coppi sulla magistratura: "Certe toghe mi fanno paura. Ecco perché qualcuno dice no alla riforma della giustizia"

Pietro Senaldi

«La verità è che la politica ignora i problemi della giustizia, che si abbattono soprattutto sui cittadini comuni, e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano dei mali dell'amministrazione dei tribunali, però sono discorsi che sento da più di cinquant' anni senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi, ho l'impressione che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prenda la lunghezza dei processi: sembravano eterni già negli anni Settanta, oggi durano ancora di più La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che mi viene in mente».

C'è un uomo solo che può parlare delle relazioni tra magistratura e politica senza essere accusato di imparzialità, perché ha difeso da pesantissime accuse dei pm i due leader più longevi della storia della Repubblica, Andreotti e Berlusconi, e li ha fatti assolvere, ma non ha mai ceduto alle lusinghe del Parlamento, che pure lo ha corteggiato. La sua toga è immacolata, il suo nome è Franco Coppi. L'avvocato più famoso d'Italia è disincantato, la passione per il diritto è la stessa di un ragazzino, malgrado gli 82 anni, la disamina è amorevolmente spietata, la diagnosi lascia poche speranze perché non si intravede volontà di ravvedimento operoso. «Riforme ne sono state fatte negli anni», per una volta il tono è quello della requisitoria e non dell'arringa, «ma stando ai risultati sono state quasi tutte inutili, non ho visto miglioramenti».

Devo dedurne che la giustizia italiana è irriformabile? «Nulla lo è, a patto che ci sia la volontà. Riformare davvero richiede il coraggio delle proprie decisioni e la disponibilità a esporsi a critiche anche feroci. Se pensi a quanti voti perdi se separi pm e giudici o se togli l'abuso d'ufficio, non vai da nessuna parte. Devi fare quel che ritieni giusto, senza curarti delle conseguenze».

I politici dicono che riformare la giustizia è impossibile perché i giudici non vogliono «Io penso invece che temano di perdere il consenso se toccano la magistratura».

 

 

Ma la magistratura non ha perso credibilità negli ultimi anni? «Comunque meno della politica».

I politici dicono di temere la reazione dei pm, pronti a indagarli se smantellano il suo potere «Io non credo che ci sia una guerra della magistratura contro la politica tout court. Non creiamo falsi problemi: la magistratura ha un potere enorme ma quello del legislatore è ancora più grande. Se il Parlamento avesse la forza di cambiare la legge, alla fine Procure e Tribunali sarebbero costretti ad assoggettarsi».

Secondo lei quindi è stata la politica a cavalcare la magistratura più che la magistratura a tenere sotto scacco la politica? «Questa è un'analisi che contiene della verità: certo alcune parti politiche hanno speculato sulle disavventure giudiziarie degli avversari. Sgradevole che quasi sempre sia avvenuto prima della sentenza definitiva, che spesso è stata di assoluzione, come nei processi che ho seguito per Andreotti e Berlusconi. Però, se intendo il senso provocatorio della sua domanda, il fatto che una giustizia così screditata sia in un certo senso funzionale agli interessi della politica è una tesi suggestiva e non infondata».

Ma se la politica non è ferma per timore della reazione della magistratura, perché allora la subisce? «Sudditanza psicologica? O piuttosto anche una forma strana di indifferenza rispetto ai problemi. Il Parlamento oggi sembra avere dimenticato il motto latino "Iustitia fondamentum regni": con istruzione e sanità, il funzionamento dei tribunali è il cardine di un Paese civile. Noi invece abbiamo messo anche la giustizia in lockdown, ma i danni sono irreparabili».

È così difficile apportare queste modifiche? «Basterebbero 24 ore. Però temo che uno dei grandi problemi sia il deficit di competenza. La politica in realtà non sa dove mettere le mani per migliorare il diritto. Non ha gli uomini, dovrebbe appaltare la riforma della giustizia a una commissione di una dozzina di giuristi».

I giudici insorgerebbero subito «Se le proposte fossero concrete e ragionevoli, non potrebbero opporvisi. E anche se lo facessero, chi se ne importa?».

Ritiene che le toghe siano troppo politicizzate? «Di magistrati ne ho conosciuti tanti. Sono una piccola parte quelli condizionati dalla politica».

Captatio benevolentiae? «Guardi, ho visto molti più giudici influenzati dall'opinione pubblica, dai giornali o dalle mode che dalla politica. C'è chi mi ha confessato, prima dell'udienza, di essersi fatto un'opinione guardando i talkshow».

 

 

Le intercettazioni di Palamara però hanno rivelato che Salvini è a processo perché ritenuto un avversario politico e non un sequestratore di immigrati «Sarebbe una cosa spregevole».

Cosa pensa di quello che sta venendo fuori sulla magistratura? «Non tutto è una novità, di certe cose si parlava da tempo. La cosa più sgradevole è il sistema di nomine, tutte raccomandazioni, dispute, calcoli: se fosse davvero così, sarebbe sconcertante».

Che quadro ne emerge della magistratura? «Un potere autoreferenziale concentrato su se stesso, più interessato alla politica interna che a quella nazionale».

Vede segnali di pentimento nella casta in toga? «Vedo imbarazzo nei molti magistrati onesti. È auspicabile che l'intera categoria si senta ferita».

Cambierà qualcosa? «Per cambiare serve volontà. Quel che vedo non mi fa essere ottimista».

Bisognerebbe abolire l'Associazione Nazionale Magistrati? «L'abolizione del parlamentino delle toghe è un problema che non mi sono mai posto. La sua esistenza mi lascia indifferente: se c'è, è naturale che si divida in correnti, ma i problemi veri della magistratura sono altri».

Quali, secondo lei? «Vedo troppa anarchia nei tribunali, ogni giudice fa quel che gli pare e i processi hanno spesso sviluppi cervellotici, sfociano in sentenze imprevedibili. Avrei paura a essere giudicato da questa magistratura».

Colpa del Consiglio Superiore della Magistratura? «Il Csm non può intervenire sui processi ma sui comportamenti deontologici dei giudici. È il capo degli uffici, il Procuratore o il Presidente del Tribunale che deve far lavorare i suoi sottoposti e mettere un argine a decisioni e comportamenti stravaganti. Solo che, appena lo fa, si parla di attentato all'indipendenza del giudice. Invece secondo me è indispensabile un capo che riprenda e metta ordine».

La sua ex collaboratrice, Giulia Bongiorno, ha detto che nell'esame di magistratura bisognerebbe inserire un test psicologico. Lei sarebbe d'accordo? «Sono d'accordo che servirebbero mezzi di selezione più rigorosi. Non è ammissibile che si diventi magistrati, acquistando diritto di vita e di morte sugli italiani, dopo due o tre compitini di legge. Ci vorrebbero esami più articolati attraverso i quali saggiare anche la preparazione morale e spirituale e l'equilibrio psicologico e politico del candidato».

 

Ipotizza anche verifiche nel corso della carriera? «Queste dovrebbero farle i capi dei giudici. In realtà credo che bisognerebbe dare più importanza alla produzione di un giudice per valutarne gli avanzamenti di carriera. Oggi si procede solo per anzianità, ma questo ti porta in processi importanti, magari in Cassazione, a trovarti davanti a giudici che mai avresti immaginato a certi livelli. Dovrebbero contare anche i processi vinti o persi e le sentenze impugnate o cassate. Come in tutti i lavori, il risultato deve avere un peso nella carriera. Trovo molte diversità nei livelli di preparazione di una toga rispetto a un'altra».

Si dice che i giudici non pagano mai per i loro errori «Lavorare sotto il timore di uno sbaglio che può costare caro toglie serenità e distacco».

Però lei se sbaglia, paga «Io non ho mai desiderato fare il giudice perché mi angoscerebbe l'idea di decidere sulla sorte di un uomo. Pensi che ci sono certi processi, dove non sono riuscito a far assolvere imputati che ritenevo innocenti, per i quali ancora non dormo la notte a distanza di anni».

Che qualità dovrebbero essere indispensabili per un giudice? «A parte la preparazione tecnica, che non sempre riscontro, un giudice deve avere equilibrio e umanità, per ricostruire i fatti e valutarli. Deve essere dotato di un alto valore morale e sociale, perché diventa interprete della realtà che sta vivendo».

Si ha l'impressione che certe sentenze vogliano cambiare la società anziché seguirne l'evoluzione «Talvolta nelle motivazioni dei verdetti c'è la volontà di impartire qualche lezioncina. Però quando parlo di valore morale non voglio dire intento moralizzatore, che è una cosa dalla quale il giudice dovrebbe sempre rifuggire».

Le mutazioni della società hanno portato anche a una proliferazione delle fattispecie di reato «Alcuni nuovi reati sono inevitabili, come quello che punisce le comunicazioni sociali che manipolano il mercato. Altri sono gratuiti».

Tipo il femminicidio o i reati della legge Zan? «Talvolta introdurre un nuovo reato serve al legislatore per levarsi il pensiero. C'è un problema sociale? Creo un reato e sparo una condanna, così ho la coscienza a posto e mi mostro sensibile. La realtà è che bisognerebbe depenalizzare, non creare nuovi reati; oggi abbiamo liti di condominio che finiscono in Cassazione».

 

 

Com' è cambiata la giustizia da che ha iniziato lei? «Essendo anziano non vorrei passare per un laudator temporis acti, ma non posso evitare di constatare un degrado generale, nella magistratura quanto nell'avvocatura. Ricordo che un tempo, quando andavo ad ascoltare i grandi per imparare, c'erano livelli di discussione giuridica ben più alti. Oggi, a causa anche del carico di lavoro eccessivo, i tribunali sono diventati delle fabbriche del diritto, le sentenze vengono scritte in fretta. Ma sono nostalgico anche anche per quanto riguarda la cifra stilistica: girando per le aule mi sembra che manchino l'eleganza e il decoro di un tempo».

È stato più facile far assolvere Andreotti o Berlusconi? «Quello di Andreotti è un processo che non si sarebbe dovuto tenere».

E quello di Berlusconi, l'ha vinto in punta di diritto? «No, l'ho vinto sui fatti: quelli contestati non configuravano un reato». Però si era messa male «Per vincere non ho dovuto scalare le montagne, molto lavoro era stato fatto dai miei predecessori, io ho dovuto solo convincere i giudici che la qualificazione giuridica dei fatti portava necessariamente all'assoluzione».

Fortuna che quella volta non si è imbattuto in un giudice moralista? «Non sono un mondano, la sera preferisco stare a casa con mia moglie e le mie figlie, abitiamo tutti vicini. Però alle cene di Arcore ci sarei andato, e mi sarei pure divertito».

Perché ha chiamato il suo cane Ghedini? «Perché me l'ha regalato proprio Niccolò. Io sono un grande cinofilo. Il cane si chiama Rocki, io gli ho dato un cognome, ma è un gesto d'affetto verso chi me l'ha donato. Mi ha fatto un regalo che mi ha commosso e del quale gli sarò sempre grato».