Il più internazionale dei nostri cronisti

Addio a Arrigo Levi, l'inviato in tutte le guerre

Francesco Specchia

C’era qualcosa di inafferrabile nella gracile possanza di Arrigo Levi.

 Sarà stata la voce lievemente chioccia, o il lessico di velluto e l’impeccabile pronuncia inglese, oppure quell’aspetto da prof di greco che richiamava all’ordine gli ingombranti inviatoni Rai dall’estero (Volcic, Orlando, Selva, Paternostro, il mitico Citterich: Alighiero Noschese nello show Doppia coppia ne fece un’imitazione meravigliosa: “Levi, no, dico, levi quella mano dal microfono sennò non si sente nulla..”). Sarà stata l’infanzia passata a Buenos Aires per sfuggire alle persecuzioni razziali; e la gioventù spesa nelle fila dell’esercito israeliano all’ombra di un kibbutz; e la maturità consumata tenacemente nei posti più caldi della Terra. Sarà stato tutto questo, e altro ancora. Ma, insomma, quando Arrigo Levi, nel ’68, da pioniere dei mezzibusti Rai, sfilava davanti alla telecamera, gli spettatori venivano sempre investiti da una zaffata di autorevolezza quasi innaturale. Levi, morto oggi a 94 anni, era il più internazionale dei cronisti italiani d’assalto. Il suo cursus honorum -che in Italia ricorda soltanto quello di Maurizio Molinari attuale direttore di Repubblica-  lo faceva assomigliare più a un reporter americano, ad un inesausto globetrotter d’inchiesta, che al classico inviato italiano. Spesse volte Levi non cavalcava la notizia, ma diventava egli stesso la notizia.

Era nato a Modena da famiglia ebraica errabonda per sopravvivenza ma era anche finito nelle patrie galere argentine per aver manifestato contro Peron. Dopo la laurea in filosofia e rientrato in Israele, si era arruolato volontario, appunto, nelle brigate del Negev partecipando alla prima guerra arabo-israeliana e scrivendo corrispondenze dal conflitto per i quotidiani Libertà e Gazzetta di Modena, nonché per la rivista socialista Critica Sociale diretta da Ugo Guido Mondolfo. Qualche anno dopo, nel ’67, aveva ripreso posizione -a modo suo- sull’eterna questione ebraico/palestinese. Altro giro, altra trincea. Piazzatosi sulle traiettorie dei missili arabo-israeliani durante la Guerra dei sei giorni, realizzò dirette memorabili per la Rai. Da lì finì intruppato nella formidabile squadra dei corrispondenti esteri per la Bbc a Londra e per il Corriere della sera e per Il Giorno, prima a Londra e poi a Mosca. A differenza di Piero Angela che li detestava (per essendo stato un efficacissimo corrispondente dal Vietnam), gli Esteri, per Levi erano, la porta ad Occidente del grande giornalismo. Addirittura, scrivendo direttamente in inglese (conosceva sei lingue), divenne columnist per il Times, e per il settimanale statunitense Newsweek. Molti ricordano le sue profezie di cinquant’anni fa sul ruolo dell’Italia nello scacchiere europeo: “La verità è che noi non siamo ancora preparali a vedere i problemi nazionali come problemi europei: i soli che vengono affrontati con un'azione internazionale sono quelli finanziari. E’ stupido, ma è così. Eppure è certo che la crisi italiana può diventare una questione europea. Ma di fronte a crisi di questo tipo, come fu anche quella francese del maggio '68, noi siamo disarmati, perché non abbiamo una politica interna europea”. Aveva ragione. E continuiamo a non averla, la politica interna europea. Ma se il nomadismo della notizia portava Levi lontano dalle piccinerie dell’italico Palazzo, la sua talentuosa capacità di tratteggiare gli scenari geopolitici e intessere ragnatele di rapporti lo spinse verso la direzione de La Stampa (dal ’73 al ’78). Lì, ebbe il merito storico di inventare Tuttolibri, il primo vero inserto culturale di un quotidiano; ma dovette pure affrontare, nel pieno degli anni di piombo, l’uccisione da parte delle Brigate Rosse, del suo vicedirettore Carlo Casalegno. In tv condusse il settimanale Tam Tam; dall′82 all′87 fu in Fininvest (Punto sette, Tivù tivù). Tornato in Rai collaborò, tra l’altro, con Mixer di Giovanni Minoli. Poi, quattordici anni al Quirinale. Dal 1999 al 2006 Levi si trasformò in un abilissimo comunicatore istituzionale, come consulente per la comunicazione della presidenza della Repubblica, con Carlo Azeglio Ciampi, poi consulente personale del presidente Napolitano fino al 2013.

Laico dichiarato, Levi confessò che perfino “un laico miscredente come me, è tentato talvolta di rimettere piede in sinagoga”; ma con questa premessa aveva reso attivissima, per anni, la comunità ebraica di cui era pregiato membro. Autore di 26 libri -non tutti memorabili- Levi ebbe l’ossessione della morte e della vecchiaia sin da quando varcò la soglia della cinquantina, al punto da scriverci sopra un saggio ispirato al De Senectute di Cicerone,  La vecchiaia può attendere, anno ‘98. Titolo un po’ ottimistico, riconosceva. Diceva inoltre, Levi: “Condivido l’idea che si possa invecchiare facendo aspettare, il più possibile, la vecchiaia”, ma non rinviandola all’infinito. Arrivata la signora con la falce, non si può dire che il sublime vegliardo non fosse preparato…