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Xavier De Maistre l'ufficiale che trovò il mondo in una stanza

 Xavier de Maistre, Viaggio intorno alla mia camera

Francesco Specchia
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Sul mobile della sala, accanto alle inevitabili foto di famiglia, svetta un candelabro che da sempre ritenevo una Menorah, una di quelle reliquie a sette bracci che gli ebrei considerano il rovo ardente di Dio. Solo da pochi giorni noto che i bracci sono soltanto cinque, e il candelabro è un tarocco formidabile rifilatomi da chissà quale rigattiere.

Così come percepisco solo adesso che, nell’angolo del salotto, cresce una pianta enorme e nessuno qui ha idea di cosa sia; oppure che, sempre alla solita ora d’ogni pomeriggio, con la precisione d’un metronomo, un tizio accompagna il proprio cane a fare la cacca davanti al mio cancello, saluta silenziosamente e se ne va. Così. Vorrei sapere perché lo fa, quali problemi lo assillano, se si droga. Forse lo considera un gesto di stima. Mi avvedo solo in questi giorni, insomma, degli dei delle piccole cose che affollano il mio smart working, perché il Coronavirus, col suo obbligo del lavoro da casa, ha dilatato i ritmi delle nostre vite e quelli della nostra attenzione, in modo proustiano. D’altronde ogni esistenza è letteraria. E il nome che mi consola e che emerge da queste giornate slavate, spesso riverberanti di nulla, è quello di Xavier de Maistre. Fratello del più noto Josef, ufficiale francese di stanza a Torino nel 1790, De Maistre scontò, per 42 giorni, gli arresti nella cittadella piemontese in seguito a un duello d’onore non autorizzato. Sicché all’indomabile uomo d’azione vennero vietate le uscite con gli amici, le partite a carte, il teatro, le donne (e le tentazioni erano forti, era il tempo in cui Vittorio Alfieri, per eluderle si faceva legare alla sedia). Si trovò in una quarantena forzata che minacciava di accompagnarlo alla follia: «O tempo, terribile divinità! Non mi spaventa la tua falce crudele; temo soltanto i tuoi orrendi figli, l’indifferenza e l’oblio, che trasformano in una lunga morte i tre quarti della nostra vita». Epperò il giovane trovò un modo geniale per sfangarla: cominciò a scrivere un capitolo al giorno, per 42 giorni, di un romanzetto dal titolo Viaggio intorno alla mia camera cui seguì Viaggio notturno intorno alla mia camera deliberata parodia del libro dell’esploratore James Cook James Cook, Diario di un viaggio attorno al mondo. Da lì, a colpi d’immaginazione la mansarda del militare divenne un’immensa porta verso il sogno; e, a cavallo del davanzale, egli cominciò a descrivere il paesaggio interno ed esterno. Una ragazza che canta che s’infila sotto al balcone lasciando una pantofola come un’unica traccia. Lo scroscio della fontanella all’angolo e il fruscio delle foglie degli alberi del giardino “spazzate dallo zefiro”; giardino che un tempo attraversava con disattenzione a causa delle fretta di girare l’Europa (De Maistre, in parte, aveva attraversato il Vecchio Continente sul pallone aerostatico dei fratelli Montgolfier). De Maistre cominciò ad apprezzare, alla Pascal, il fragore dei gesti lenti. Riscoprì non solo se stesso, ma l’importanza di oggetti abbandonati nei cassetti, all’oblio del quotidiano; ritrovò lettere, stampe a quadri. Ad un certo punto, davanti alla stampa di una schiava venduta da un inglese a cui ella stessa aveva salvato la vita e da cui aspettava un figlio, De Maistre cominciò a levigare la fantasia, imbastendovi un dialogo immaginario. E ogni passo compiuto in quella cubatura, ogni balzo, ogni passeggiata da un angolo all’altro della stanza gli regalava nuove prospettive di racconto. I viaggi da camera di De Maistre portarono all’autore talmente tanta fama e successo che lo stesso Alessandro Manzoni, ancora nel 1832, gli avrebbe domandato in una lettera: “Signore, viaggiate ancora nella vostra camera?”. Rispetto al viaggiatore da fermo Emilio Salgari (che descriveva l’India di Sandokan dalla redazione de L’Arena di Verona), De Maistre aveva davvero girato il globo: quel suo viaggio era veramente uno squarcio nello spazio-tempo, quel libro divenne un’efficacissima seduta di autoanalisi.

Ecco, oggi attingo a De Maistre per poter sopravvivere all’orchite domestica, al mio vicino che abbatte alberi in giardino come fosse un boscaiolo del Nebraska, alla chitarra elettrica dei miei figli che hanno cambiato repertorio dai Kiss ai Deep Purple, ai miei orizzonti a scacchi dalla grata della cameretta. E gli oggetti, i particolari insignificanti assumono quasi dimensione cinematografica. Per esempio, non mi sarei mai accorto, in condizione normali, che la mia libreria che abbraccia tutta la parete si sta imbarcando sotto il peso di libri mai letti, e l’ordine del bibliofilo è andato a farsi fottere: la teoria della globalizzazione di Stiglitz è accatastato accanto ai fumetti di Tex, le opere di Rodin si sovrappongono a quelle di Totò, Anatole France è schiacciato tra Woody Allen e lo sciamanesimo: qualcuno ci ha messo le mani. Qualcuno ha toccato anche il mio album di fotografie di famiglia e quello degli anni universitari, l’unica traccia analogica rimasta nella memoria vaporosa del digitale. Qualcuno, i miei figli, in questo momento sta guardando su Netflix La storia infinita che raccontavo loro prima di metterli a nanna. Ora noto anche il postino che mi consegna le cartelle esattoriali è sempre lo stesso da anni, con sempre con l’identico sorrisetto da stronzo. Finirà quest’esilio. E come cita il musicologo Fabio Sartorelli, sospireremo tutti come De Maistre: “Devo lasciarti, incantato paese della fantasia, la mia camera: proprio oggi  certe persone da cui dipendo pretendono di restituirmi la libertà come se mi fosse stata tolta. Essi mi hanno vietato di percorrere una città ma mi hanno lasciato il mondo intero”…

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