Elogio della rampolla
Selvaggia Lucarelli: evviva Barbara Berlusconi, la Veronica con il Cav intorno
Se rinasco voglio essere Barbara Berlusconi. Anzi, lo esigo. Se la metempsicosi non è un’opinione, in questa vita ho espiato tutti i debiti karmici sedendo in salotti accanto a Pierluigi Diaco, condividendo anni preziosi con fidanzati convinti che la fedeltà fosse un dovere solo del dolby surround, avendo il metabolismo più lento della parlata di Letta e ritrovandomi con un figlio che vede solo film giapponesi degli anni ’50. Direi che ho tutto il diritto di rinascere terzogenita di Silvio Berlusconi. Attenzione, io voglio essere proprio Barbara, mica un figlio qualunque di Silvio. E voglio essere lei semplicemente perché Barbara Berlusconi ha avuto quel talento clamoroso nel prendere il meglio del padre e il meglio della madre, miscelarlo con abilità e trasformarsi nella radical chic più pop e godereccia d’Italia. A guardarla con attenzione, Barbarella è l’unico personaggio veramente interessante della stirpe Berlusconi. Se Marina dà l’idea di essere più preoccupata dell’ascesa della sua cofana che di quella in politica, se Eleonora sembra ormai il clone di Giorgia Meloni, se di Piersilvio sappiamo solo che gli piacerebbe Renzi come conduttore, magari di Verissimo, così la Toffanin va a fare il segretario del Pd e di Luigino non sappiamo una beata cippa, di Barbara sappiamo un bel po’ di cose interessanti. Intanto, non è bellissima ma ad esserlo ci prova con una solerzia e un accanimento che in Italia ha una sola persona: il padre. Con il vantaggio che da un punto di vista genetico, del padre ha solo la mascella. Tu la guardi, sempre con la piega giusta, il tacco giusto, il trucco giusto, la magliettina strategica tenuta pure al mare come la D’Urso per evitare la paparazzata dopo la quale riprendi a mangiare due compleanni dopo, e lo sai che deve essere una fatica bestia stare costantemente sul filo del «carina» e del «così così». Lo sai che è una lotta perenne tra la mascella del padre e l’occhio azzurro della madre e basta distrarsi un attimo - un colpo di vento, un paio di ballerine, una foto appena sveglia - perché vinca la mascella. Ed è per questo che Barbara mi piace: perché se il resto se l’è sudato poco, la taglia 42 se la suda tutti i giorni con tanto di straordinari. Fermo restando che dove non arrivano gli sforzi, arriva photoshop: almeno un paio di sue copertine sono costate di photoshop più di quanto al padre sia costato Balotelli. Ma il bello di Barbara è altro: forte dell’educazione materna e della laurea in filosofia, in campo lavorativo, non ha mai ceduto a frivolezze da rampolla gnocca. La parte Lario le ha impedito di cedere a tentazioni quali sue linee di occhiali con montatura in rinoceronte indiano o pashmine in barba di capra tibetana pezzata, ma s’è aperta una galleria d’arte. Una fidanzata media del padre pensa che l’Urlo di Munch sia quello che fa durante la ceretta brasiliana, e lei va alla Biennale con la busta della spesa. Come non amarla. Sempre la parte Lario le regala quel beato istinto materno in virtù del quale ancora giovanissima sforna gli unici due minorenni che ad Arcore abbiano davvero bevuto Coca Cola: i suoi due figli, avuti dal fidanzato storico Giorgio Valaguzza. Se la vita di Barbara finisse qui, tra tagli nella tela e tagli del chirurgo qua e là nel girocoscia, se la parte Lario fosse quella predominante, ci saremmo già annoiati. E invece succede che Barbara, a ventisette anni suonati, sfodera il gene Berlusconi. Liquida il padre dei suoi figli e si invaghisce di un calciatore brasiliano più giovane di lei con cui si rotola sul pontile di Villa Certosa tipo balla di fieno da giugno a settembre e con cui improvvisa fughe d’amore a Bali della serie «Mangia prega ama e spolpa Pato con le forbici per l’aragosta». Se ne frega dei giudizi, delle critiche bigotte, della laurea in filosofia che nel frattempo ha preso fuoco da sola come la Bibbia negli esorcismi. La parte Lario nobilita la sbandata. Rilascia interviste a Vanity fair in cui esprime il concetto «Ho visto Pato e mi so’ scordata pure l’indirizzo di casa mia» con una tale aulicità e carpiati doppi infarciti di filosofia spiccia e retorica sparata con la pistola decora-torte, che io per prima le ho dato ragione. Senza se e senza ma. È diventata la mia eroina. Anche e soprattutto quando all’ipotesi che Pato venisse ceduto, ha fatto gentilmente capire al padre che se il fidanzato si fosse mosso dall’Italia, gli avrebbe strappato dalla testa quei tredici capelli germogliati con fatica. Pato alla fine è rimasto, per poi partire per il Brasile un anno dopo. E qui Barbara da eroina si trasforma in mito assoluto. Per un po’ lei prende aerei per il Brasile. Parla di «costante contatto emotivo» con Pato. Qualcuno intanto insinua che lui abbia un costante contatto emotivo con una signorina brasiliana, ma lei tace. Incassa in silenzio. Pato vince la coppa e si fa fotografare con una t-shirt modello bimbominkia con scritto «Barbara amore vero. Ti amo» che nella speciale classifica delle prove certe di colpevolezza del fedifrago medio viene dopo il ritrovamento di un perizoma fucsia sotto al cuscino. Lei sempre zitta. Lui torna in Italia, li fotografano insieme. Pato riparte e quando meno te l’aspetti, quando pensi che Barbara sia nella fase Lario tra libri di filosofia, corsi di uncinetto e passeggiate al parco coi figli, eccola lì che la mia eroina ritira fuori il gene Berlusconi. E ancora lì, su quel famoso pontile di Villa Certosa - che se avesse un microfono e potesse parlare chiederebbe un mese di repliche a San Siro - si rotola con un nuovo ragazzo, ancora una volta gnocco come pochi, ancora una volta più giovane, ancora una volta con la scadenza sul deltoide. Fregandosene dei commenti, del cuore dell’anatroccolo brasilero, del gossip selvaggio e delle nenie perbeniste. Novantadue minuti di applausi.