Selvaggia Lucarelli
Parlavo in auto con mio figlioma lui era già in classe...
Mi è successo qualche mattina fa. Dopo le solite scene da sveglia fantozziana, col bip del microonde e la tazza del latte che continua a girare mentre allaccio le scarpe a mio figlio e lui ripassa a voce alta la tabellina dell’otto, sono uscita di casa. Controllo il cellulare in ascensore, comincio a sparpagliare post it virtuali nella memoria, con la lista delle cose da fare, delle persone da chiamare, degli orari da rispettare. Nel frattempo rispondo alle domande universali di mio figlio - "Perché gli abitanti di New York non cambiano città, visto che Godzilla, gli alieni, King Kong e le onde anomale arrivano tutti lì?" - e saliamo in macchina. Lui si siede dietro, come sempre, col suo grembiulino blu e lo zaino sul sedile accanto che sembra quello con cui Messner ha sfidato il K2. Dico che New York è bellissima e che quelle cose non capitano davvero, succedono solo nei film. Mio figlio ha otto anni. Lo porto a scuola io, tutti i giorni, da cinque anni. Qualche volta, in quei dieci minuti che separano casa dall’istituto, chiacchieriamo un po’. Alle volte mi chiede di alzare la radio perché gli piace Candy. Più spesso è così assonnato che risponde a monosillabi cose incomprensibili e io più che una mamma, mi sento un tassista a Bangkok. Arrivati davanti a scuola, parcheggio la macchina incastrandola tra una bici e un parchimetro, lascio mio figlio davanti al portone, gli do il solito bacio come se stesse partendo per il fronte e vado via. Dicevo. Mi è successo qualche mattina fa. Dopo averlo lasciato sono ripartita in macchina e mi sono fermata al primo semaforo, qualche minuto dopo. E lì ho fatto una cosa che non avevo mai fatto in cinque anni: ho fatto una domanda a mio figlio. Non ricordo neppure su cosa, ma so che per qualche secondo ho aspettato di sentire la sua vocina arrivare dal sedile dietro. Silenzio. Poi il flash, improvviso. Leon non c’è, è a scuola, gli ho raddrizzato io lo zaino sulle spalle piccole neanche cinque minuti fa, mentre saliva le scale. Dopo un attimo di sbigottimento, mi sono data della rintronata da sola con un mezzo sorriso e a quell’episodio non ho pensato più. Fino all’altro giorno, quando ho letto del papà di Piacenza che si è dimenticato di portare il bambino all’asilo. Se l’è scordato in macchina ed è andato in ufficio a lavorare. Alle quattro il nonno era puntuale all’asilo, ma il nipotino non c’era. Luca era sul seggiolino di una macchina, morto di asfissia. Morto di distrazione. Il nipotino è stato per otto ore in un luogo che non esisteva nella testa di nessun adulto che lo amava. Per le maestre era a casa, per i genitori e i nonni all’asilo. Nessuno lo sapeva, ma mancavano dieci minuti di pellicola nel film di quella mattina: il papà che gli slaccia la cintura, l’asilo con i disegni sulle pareti, forse un giacchetto lasciato su un gancio col nome “Luca” scritto sotto, il saluto veloce alle maestre. Si passava subito alla scena successiva: il tonfo sordo di una portiera che si chiude e un papà che scappa veloce in ufficio. Quel papà ha appena dimenticato suo figlio in macchina. Quando si legge di una tragedia simile, non prevalgono né rabbia né pietà. Prevale lo stupore. In macchina si dimentica il cellulare. Si dimentica l’ombrello. L’ipad. Si dimentica l’immondizia nel bagagliaio, quando si è proprio distratti. Come si fa a dimenticare un figlio? E infatti, "Come ha fatto?" è proprio quello che urlava la mamma del piccolo Luca, quando ha saputo cosa era accaduto. Già. Come ha fatto. Ed è qui che mi è tornato in mente l’episodio della domanda al semaforo. Io non avevo dimenticato di portare mio figlio a scuola quella mattina. Mi ero dimenticata, per un attimo, che ce l’avevo già portato. Il papà di Luca era convinto che Luca non fosse più lì e io ero convinta che Leon fosse ancora lì. Come ho fatto? Non lo so. So che quello che è accaduto a me è trascurabile, eppure mi ha dato una chiave per comprendere cose di fronte alle quali c’è solo sconcerto. Ritualità, fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come tirare la tenda prima di andare a dormire, diventano spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a basket come tutti i mercoledì, quando li lasceremo a catechismo come tutti i sabati, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime di piccoli corto circuiti: una festa dell’amichetto dimenticata, la babysitter che citofona perché si è scordato di disdirla, il libro di matematica rimasto a casa, i jeans il giorno in cui ha ginnastica. Ma ci sono anche i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. E i nostri "Come ha fatto?", col sospetto terribile, che cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone di cui non ci dimentichiamo mai: i nostri figli. di Selvaggia Lucarelli