Il ritratto
Filippo Facci svela Borrelli: "Come sceglievamo gli obiettivi". Il vero volto di Mani Pulite
È morto un personaggio a suo modo straordinario, magnifico nella sua unicità e pur lontanissimo dai peana che gli dedicheranno le misere penne intinte nell'inchiostro di cancelleria. È l' unico che varrà davvero la pena la pena di ricordare nel pool zootecnico di "Mani pulite", anche perché neppure con tutta la fantasia delle fiction si sarebbe potuto immaginare un ammiraglio più diverso dai suoi soldati assaltatori, uno in particolare. Borrelli, culturalmente e giuridicamente, è il massimo che Napoli abbia mai potuto produrre, lontano anni luce da certa cenciosità carnevalesca e prolissità ciceroniana. Era cresciuto in una famiglia altoborghese con la fissa della musica e del francese, lingua ufficiale di casa. La madre e il padre erano diversi come di più non si poteva: lei, Miette, era una raffinata ma pur sempre passionale donna calabrese; il padre, Manlio, era invece un dannunziano fortemente permeato di estetismo e le aveva davvero tutte: l' occhio azzurro, il monocolo, il fisico da ufficiale di cavalleria, nietzschiano della prima ora, un monarchico antifascista - ennesima, apparente contraddizione - che a Milano sarebbe diventato presidente di Corte d' appello e buon amico di Indro Montanelli. Francesco Saverio era sprovvisto dell' approssimazione e indolenza partenopee, era un simpatizzante semmai della burocrazia austroungarica tutta costanza e disciplina, un signore da vacanze estive a Sils Maria, in Val Engadina. Leggi anche: "In un Paese serio...". Travaglio in lacrime per Borrelli: trionfo manettaro (senza precedenti) SENTIMENTO E SENTENZE - Il dualismo tra musica e legge ebbe a dividere sempre e amabilmente tutta la sua famiglia. La sorella andò in sposa al musicologo Roman Vlad, mentre il fratello Fabio, elegantissimo e snob, fu consigliere dell' Opera di Roma ovviamente con classica villa a Capalbio. Musica e legge: Francesco Saverio studiò entrambe. Il suo maestro di pianoforte e composizione, Roberto Lupo, disse che percepiva in lui un' inclinazione rigorosamente classica e poi un' altra disperatamente romantica, una lotta continua e di contrasto, la disciplina come gabbia di rigorosa coerenza e poi la tentazione del disordine. Nel 1951 vinse una borsa di studio per andare a Bayreuth, luogo sacrale del mito di Richard Wagner, e tornò completamente frastornato dal compositore che pure aveva ammaliato suo padre. Una passione eterna ma che accrebbe la sua indecisione sul che fare: tanto che nello stesso anno si diplomò al conservatorio e si laureò in giurisprudenza. Il titolo della tesi spiega tutto: "Sentimento e sentenza". Sceglierà quest' ultima. Difficile cogliere il saldo tra questo Borrelli e quello che riuscì a divenire - il 17 marzo 1988, quando stava per compiere cinquantotto anni - procuratore capo a Milano. Convisse tranquillamente con la Milano dei socialisti, chiuso nella sua superiorità. Il resto si sa. Dopo le elezioni politiche del 5 aprile 1992 i partiti tracollarono e risuonò tutt' altra musica, la Götterdämmerung della vecchia Repubblica. L' intervista che rilasciò il 1° maggio 1994 sul Corriere della Sera, dal sen fuggita, non si può dimenticare: «Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della Legge. E soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo ... una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello di questo genere, del Capo dello Stato, si potrebbe rispondere con un servizio di complemento», questo sì». Fu un modo complesso per definire un golpe: ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d' interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Perché qualcosa accadesse, bastava farla accadere: Craxi in latitanza, Andreotti processato per mafia, Berlusconi nel mirino non appena candidato. TATTICA «BLITZKRIEG» - Quello che pochi sanno è che Borrelli, con un distacco storicizzante alla Sergio Romano (altro abitudinario di Sils Maria) col tempo ammise più o meno tutto. Ai tempi del decreto Conso (1993) è noto che giornali e magistratura furono in grado di bloccare le legittime decisioni del Parlamento; il governo aveva architettato una complessa depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti (dapprima con la collaborazione del Pool di Milano) ma poi lo stesso Pool stilò un comunicato di protesta e il bailamme mediatico fece il resto. Il pavido Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, non firmò. E Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, ammetterà: «La presa di posizione sul decreto Conso era stata, inutile negarlo, una forma di pressione sul Parlamento... noi eravamo in qualche modo degli interlocutori politicamente accreditati». Circa la tecnica di "Mani pulite", a un certo punto ammetterà che il Pool sceglieva gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento e adottava una tattica che definì «Blitzkrieg», la guerra lampo degli eserciti germanici: una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio lasciando ai margini le sacche laterali. Peccato che questo implicasse una evidente discrezionalità dell' azione penale: sceglievano, cioè, la direzione verso cui andare. Quando poi la stagione di "Mani pulite" volse al termine, nel tardo 1994, fu comodo per molti - a destra e a sinistra - liquidarne le ragioni nel mancato coinvolgimento dei vertici del Pci o nella pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma la ragione in realtà era un' altra, e coincise con un Paese che si stava divorando, e in cui proscenio e platea rischiavano di confondersi: l' indagine stava lambendo la stessa società civile e cioè gli italiani, che si disamorarono progressivamente dopo un' ubriacatura legalitaria che dapprima era parsa liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. È una verità scomoda, ma Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, la ammise: «L' atteggiamento dell' opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l' indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l' alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Neppure l' improvvisa concentrazione su Berlusconi fu esente da conseguenze sull' umore di parte degli italiani, anche in virtù di interviste che parevano editti: «Chi ha scheletri negli armadi non si candidi alle elezioni»; «Ci sono responsabilità ai vertici e verranno colpite», «inchioderemo l' imputato alle sue responsabilità», più altri pezzi da collezione esplicitamente dedicati a una singola persona che milioni di italiani avevano appena votato. L'AMBIGUO DI PIETRO - Sì, anche il genio (del bene o del male: è lo stesso) commette errori o semplicemente straborda, catturato dalla dicotomia wagneriana che l' alto magistrato aveva dentro di sé. Un errore fu fidarsi di uno come Antonio Di Pietro, per esempio, che rimase invischiato nelle proprie ambiguità ma che soprattutto, al suo Capo - al quale dava del lei e rispondeva «signorsì» - queste ambiguità nascose per molto tempo. Qualche formalismo in più, poi, avrebbe evitato a Borrelli quel celebre mandato di comparizione recapitato a un presidente del Consiglio nel 1994 a mezzo Corriere della Sera e davanti a un consesso mondiale. Un pizzico di etichetta avrebbe persino evitato, forse, qualche carcerazione inutile, qualche vita distrutta, qualche speculazione politica in più. Alla fine del 1999, poi, si scoprì che operare chirurgicamente il malato Craxi in Tunisia, dove si trovava, avrebbe significato accelerarne la fine. Si mossero alcune delle massime autorità dello Stato, compresi il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi e il capo del governo Massimo D' Alema: ma a opporsi alla possibilità di far rientrare Craxi da uomo libero (e operabile, ma non in carcere) fu in prima persona lui, il Procuratore generale della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale, a un certo punto, si ritirò di buon ordine da magistrato qual era sempre stato, senza sfruttare profferte improbabili. Fece eccezione l' incarico azzeccatissimo di presidente del Conservatorio di Milano, nominato da un' amministrazione di sinistra (Fabio Mussi) e poi fatto fuori da un' amministrazione di destra (Mariastella Gelmini). Ma che gliene fregava, ormai aveva ottant' anni. Sparì dalla circolazione ed ebbe a presenziare solo alla Prima della Scala dove poteva vantare, rispetto alla maggioranza, un interesse addirittura musicale. Non conosciamo le sue opinioni degli ultimi anni su quest' Italia e sul personale politico che l' ha occupata, figlio a suo modo di "Mani pulite". Il Paese nato da quelle ceneri in effetti è tutto qui, oggi. Fortunato lui, che non deve più pensarci. di Filippo Facci