Il bestiario

Pansa: Se Forza Italia va a Fitto e a Brunetta

Lucia Esposito

Silvio Berlusconi gettò la spugna e abbandonò la politica il giorno di San Valentino del 2015. A obbligarlo fu la fidanzata Francesca Pascale. Da parecchio tempo lo vedeva depresso e insieme distratto, molto indifferente a tutto quello che gli era sempre piaciuto. Francesca si rese conto che Silvio stava andando in tilt da un dettaglio di cui soltanto lei poteva valutare il peso. Nel seguire i talk show televisivi, di solito il Cavaliere si soffermava sulle bellezze femminili presenti in studio. E i suoi commenti erano sempre puntuali: «Quella è mezza rifatta. Quell’altra è piena di botulino. La terza invece ha un culetto fresco e sotto il vestito nasconde un bel po’ di delizie». Ma da un pezzo di commenti non ne faceva più. Seguiva con attenzione maniacale la bufera parolaia di ogni talk. O al massimo si concentrava sulla faccia di Bruno Vespa: «Quel satanasso era già così vent’anni fa. Come farà ad avere sempre la medesima abbronzatura?». Da saggia ragazza napoletana, la signorina Pascale non perse tempo. Si disse: «Se non lo salvo io, il mio Cav non lo salverà nessuno!». E in quattro e quattr’otto stilò una lettera di dimissioni da tutti gli incarichi politici e la presentò a Silvio perché la firmasse. Era convinta di dover affrontare un rifiuto secco del fidanzato. E si era preparata a una guerriglia verbale logorante. Invece Berlusconi inforcò gli occhiali da lettura, afferrò con mano tremante la penna che gli offriva la ragazza e firmò la fine della sua avventura pubblica. La Pascale mise subito in cassaforte il documento, destinato a passare alla storia come “La rinuncia di San Valentino”. E ne diede notizia ai media di tutto il mondo. Francesca era rassegnata al caos che sarebbe esploso in Forza Italia e nel mondo del centro destra. Invece non accadde nulla. Il reame del Cavaliere era già alle prese con un disordine catastrofico. E peggio di così non poteva andare. Il rumore fu assai più grande sotto le tende degli altri partiti. Segno che nessuno si aspettava la resa totale di Silvio. Tanti si domandarono, preoccupati: «Adesso chi riempirà il vuoto lasciato dal Berlusca?». In realtà quel vuoto venne subito occupato da due eccellenze forziste: Renato Brunetta e Raffaele Fitto. Fu una sorpresa per quasi tutti. Pochi sapevano che tra i due big esisteva da tempo un accordo segreto. Nel caso, per la verità ritenuto improbabile, che il Cav lasciasse la politica, Brunetta e Fitto avrebbero rivelato di essere il nuovo vertice forzista. Una diarchia di ferro, fondata sulle rispettive competenze. Il veneziano Brunetta era l’unico a capirci qualcosa di economia, come dimostravano i suoi brillanti interventi sul Giornale di Alessandro Sallusti. Mentre il leccese Fitto risultava un formidabile conquistatore di voti. Il primo obiettivo dei due diarchi fu disboscare la selva di incarichi direttivi che il Cavaliere aveva distribuito a mezzo mondo. Se ne scoprirono ben ventisette con le responsabilità più diverse. C’era quello per Internet e le nuove tecnologie, per le libertà civili e i diritti umani, per gli italiani all’estero, per il sociale e la solidarietà, contro la malagiustizia, per i rapporti con le professioni, per il Movimento Seniores, per le nuove adesioni al partito. Esisteva anche un commissario straordinario, incaricato di tutto e di niente. Era la senatrice Mariarosaria Rossi, chiamata la Badante del Cavaliere.  Ma gli ostacoli veri per Brunetta & Fitto si rivelarono altri. Il primo e il più potente fu quello delle aziende della famiglia Berlusconi. I figli Marina e Pier Silvio erano fermamente contrari a mettersi in urto con Matteo Renzi. Ripetevano: «Se vogliamo salvarci, dobbiamo stare con il premier. Guai a staccarsi da Palazzo Chigi. Rischieremmo il disastro». Un altro ostacolo non da poco fu il clan delle signore berlusconiane. Era quasi un partito nel partito. Si andava da Michaela Biancofiore, responsabile delle risorse umane, a Mara Carfagna che si occupava di libertà civili, da Annagrazia Calabria, responsabile del movimento giovanile, ad Elena Centemero che si occupava di scuola e università, da Michela Vittoria Brambilla, dipartimento per il sociale e la solidarietà, a Deborah Bergamini, responsabile delle comunicazioni, e a Melania Rizzoli, sanità. Per finire con la Mariarosaria Rossi, la più forte di tutte, chiamata anche Piè Veloce, grande camminatrice capace di stare incollata al Cav in qualsiasi situazione. Le donne forziste non potevano soffrire né Brunetta né Fitto, considerati poco meno che i registi di un colpo di Stato diretto a cacciare dal partito il grande Silvio. In questo si trovavano alleate a un altro clan, quello guidato da Denis Verdini. Lui era l’uomo del mistero, il custode del Patto del Nazareno siglato con Renzi. Nel caos forzista veniva considerato l’inventore del renzusconismo. E si diceva che possedesse altri cinque patti del Nazareno, pronti a essere rivelati quando Denis avesse deciso di farlo, a proprio uso e consumo. Esisteva poi il problema del Nuovo Centro Destra. Qui il disordine regnava sovrano. In apparenza non esisteva più un legame tra Angelino Alfano, ministro dell’Interno nel governo Renzi, e lo stato maggiore di Ncd. Che cosa pensavano di fare Fabrizio Cicchitto, Maurizio Sacconi e Gaetano Quagliarello, per citare soltanto i big? Mistero assoluto. C’era chi voleva togliere l’appoggio a Renzi, chi pensava che questo fosse un errore, chi non pensava niente. Infine a rendere ancora più confuso il disastro c’era il problema di quei parlamentari forzisti pronti al salto della quaglia e a trasferirsi con armi e bagagli sotto il super comando renzista. Aveva fatto molto scalpore il caso degli otto senatori di Scelta Civica che non si erano curati di lasciare da solo il professor Mario Monti per passare tra i fedeli del premier. E si temeva che anche nel campo berlusconiano altri li imitassero.  Brunetta e Fitto si abbandonarono a malinconiche analisi sulla fedeltà in politica, poi furono costretti a occuparsi di problemi più urgenti. Il primo fu quello di pubblicare un appello di intellettuali ispirato a uno scritto di Piero Ostellino sul Giornale: “L’ultima chance di ripensare il centro destra”. Vennero raccolte decine di firme illustri, ma il proclama fu un buco nell’acqua. Infatti mancava la firma decisiva. Non era di un professore, bensì di un capo politico molto aggressivo e per il momento fortunato: Matteo Salvini, il leader leghista. Veniva considerato soltanto uno specialista in felpe con scritte cubitali sempre diverse. In realtà era il vero Caimano del 2015, pronto a divorare quel che restava di Forza Italia. Considerava Brunetta & Fitto una ditta superata, all’incirca simile a quella di Pier Luigi Bersani nel Partito democratico. Ed era pronto sbranarli. Infine emerse l’ostacolo degli ostacoli. Forza Italia aveva le casse vuote. Vale a dire stava all’ablativo, senza un euro. La saggia signorina Pascale si era risolta a ordinare al suo Silvio: «Non puoi più pagare le cene e gli hotel ai tuoi parlamentari. Ci pensino loro, con lo stipendio che ricevono. In caso contrario, il tuo partito si ridurrà come la squadra di calcio del Parma».  «Che è successo al Parma?» domandò il Cav che aveva testa soltanto per il Milan. «Da mesi non paga più i calciatori. È diventata lo zimbello della serie A. Vuoi fare la stessa fine?». In preda al terrore, Silvio firmò il proprio suicidio politico. (I lettori del Bestiario avranno capito che questo è soltanto uno scherzo di fantapolica. Però non si sa mai…).  Giampaolo Pansa