Il bestiario
Giampaolo Pansa: Draghi al posto di Napolitano
Non è mai stato un tipo facile Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che sta per lasciare il Quirinale. Ne so qualcosa anch’io per averlo raccontato molto, e spesso intervistato, nelle mie cronache della Prima Repubblica. Era un soggetto interessante per i giornali, dal momento che guidava l'unica opposizione ammessa all'interno di un Pci monolitico e nelle mani di signori che non rendevano comoda la vita di chi osava contraddirli. Sto parlando di ossi da mordere come Togliatti, Longo e Berlinguer. Ma Napolitano capeggiava una corrente che era comunque indispensabile per garantire un minimo di dissenso all'interno del Partitone rosso.Veniva chiamata migliorista, un'etichetta che significava socialdemocratica. Un dato di fatto che spingeva i direttori dei grandi quotidiani a sentire come la pensasse il compagno Giorgio. Ossia a intervistarlo e a presentare le sue risposte con evidenza. Quando il compito toccava al sottoscritto, lo andavo a trovare con un tantino di timore reverenziale. Era un uomo dotato di grande cultura, di una forte intelligenza e di un aplomb da lord inglese. Ma possedeva anche un carattere da prendere con le molle. Le voci interne alle Botteghe oscure lo dipingevano scostante, sempre con la puzza sotto il naso, facile a innervosirsi per un nonnulla. Se un giornalista non rispettava al minuto l’ora stabilita per l’intervista, se qualcosa scritto in precedenza dal cronista non gli era piaciuto, se gli veniva proposta una domanda fastidiosa, non c’erano santi: il compagno Giorgio prendeva cappello. Era un signore meticoloso e di una pignoleria senza scampo. Se non avesse scelto la politica sin da giovane, sarebbe di certo diventato un grande notaio, capace di redigere da solo atti molto complessi. Ma anche da dirigente comunista si comportava nello stesso modo. Voleva sempre controllare il testo dell'intervista. Fermandosi su ogni parola, su ciascuna virgola, persino sullo stile di chi l’aveva stesa. Lo apprezzava di rado. E la lettura preventiva si concludeva con un sospiro, dal significato non dichiarato, però evidente: «Purtroppo i giornali sono pieni di giovanotti superficiali, braccia strappate al lavoro sui campi». Tuttavia gli andava riconosciuto un merito. Napolitano correggeva, limava, suggeriva al cronista una parola più precisa, ma non stravolgeva mai l’intervista che aveva concesso. In questo era molto diverso da altre eminenze del Bottegone. Ho un ricordo allucinante in proposito. Nel luglio 1976, quando stavo al Corriere, venni spedito a intervistare Pietro Ingrao, appena diventato presidente della Camera dei deputati. Mi parlò a lungo, con schiettezza burbera, poi m'invitò a cena nell'appartamento presidenziale a Montecitorio. La cena consisteva nell'assaggiare il parmigiano reggiano e il lambrusco che gli avevano portato in dono i compagni di Reggio Emilia. Nel congedarmi disse: «Le sarò grato se vorrà farmi leggere il testo dell'intervista. Lo avrà di ritorno il giorno successivo». Quel giorno passò, poi ne passarono altri due e finalmente la segreteria di Ingrao mi restituì il manoscritto. Restai di sasso: il grande Pietro non aveva soltanto cambiato tutte le sue risposte, ma la stessa operazione era stata fatta sulle mie domande. Dissi a Ottone che non avrei mai firmato quella che non era più un’intervista: «Parla tu con Igrao e spiegagli che non sono permesse enormità del genere». Piero parlò, protestò, minacciò. Morale della favola: ritornai da Ingrao e lo intervistai una seconda volta. Senza correzioni. Con Napolitano la faccenda era più semplice, però mai priva di sorprese. A intervista pubblicata, poteva accadere che ti spedisse una missiva malmostosa. Per contestare un sottotitolo. O una frase del sommario che non coincideva alla lettera con le parole che aveva pronunciato. Infine capitava di ricevere una tirata d’orecchio persino per la fotografia scelta a corredo dell’intervista. Era uno stile insolito in un’epoca di faciloneria trionfante, anche se non totalitaria come oggi. E contribuiva a rendere Napolitano un big difficile da accontentare. I compagni torinesi erano arrivati al punto di chiamarlo “Re Umberto”. Per la calvizie, le fattezze del volto, il modo di fare un tantino altezzoso. Un giorno lui mi disse: «Basta con questa storia! Per lo meno scegliete un termine di confronto più attuale, moderno». Per cavarmi d’impaccio gli proposi: «Me lo suggerisca lei, onorevole». Napolitano si lisciò la pelata, poi buttò lì, con finta noncuranza: «Dite che assomiglio a lord Carrington, il segretario della Nato». Allora nessuno immaginava che il compagno Giorgio sarebbe diventato il presidente della Repubblica. E soprattutto che, alla fine del primo settennato, avrebbe dovuto accettare di essere rieletto. Con lo scopo di arginare il tragico caos che stava per travolgere il Parlamento, stretto nella morsa dei partiti in sfacelo e delle bande di franchi tiratori. Della prima elezione, quella del maggio 2006, si conosce quanto basta. Il centrosinistra voleva tutto il piatto. Aveva già il premier designato, Romano Prodi, i presidenti del Senato e della Camera, Franco Marini e Fausto Bertinotti. Ma non gli bastava. Mirava al poker, pappandosi anche il Quirinale. Bisognava risarcire i Ds. Nelle ultime elezioni politiche avevano raccolto appena il 17 per cento dei voti, ma erano pur sempre il partito meno debole della coalizione. Toccava ai reduci del Pci scegliere il candidato per il Colle. Il Foglio di Giuliano Ferrara lanciò il nome di Massimo D'Alema. Una trappola o uno scherzo? Non l’ho mai capito. Tuttavia la candidatura di Max si afflosciò subito. I suoi sostenitori non erano in grado di gestirla nel modo giusto. E una gran parte del centrosinistra lo avversava: troppo superbo, al limite dell’arroganza, con la voglia di comandare, un decisionista senza riguardi per nessuno. Oggi diremmo un Matteo Renzi con i baffi e cresciuto nell’accademia marxista delle Botteghe oscure. Allora venne scelto Napolitano. Era l’8 maggio 2006. Il giorno dopo, al momento del secondo scrutinio, a Silvio Berlusconi venne un mezzo coccolone. Ad averglielo procurato era uno dei suoi colonnelli: Sandro Bondi. Sulla Stampa si era spinto a pubblicare un santino di Napolitano. Il mite Bondi l’aveva conosciuto quando, da sindaco iscritto al Pci, guidava il comune rosso fuoco di Fivizzano, in provincia di Massa Carrara. In quella veste, poi gettata alle ortiche, era stato folgorato dal compagno Giorgio, spintosi fin laggiù a presentare un proprio libro. Bondi invitava il Cavaliere a votare per lui poiché era un socialdemocratico e «dagli elettori di centrodestra poteva essere ritenuto un politico moderato e giudicato il male minore». Napolitano venne eletto la mattina del 10 maggio, al quarto scrutinio, con 543 voti su 990. Nel frattempo era esplosa Calciopoli, l’inchiesta che mise sui carboni ardenti mezza Italia. Il nuovo governo Prodi si formò il 17 maggio, ma si rivelò una via crucis continua. Poi rivinse Berlusconi. E poi e poi… Adesso “Re Giorgio” sceglie di lasciare il Quirinale. Dovremo eleggere un nuovo capo dello Stato. Avremmo bisogno di un gigante come si è rivelato lui. Un uomo o una donna dal brutto carattere. Capace di dire no a chiunque, Renzi per primo. E di rendersi conto che l’Italia non ha mai corso un rischio terribile quanto quello di oggi e di domani. Ma esiste da noi un personaggio siffatto? Forse sì. È Mario Draghi. Giampaolo Pansa