Giarda accusa Monti: "Colpa sua se non si taglia la spesa"

Giulio Bucchi

L’accusa più dura e circostanziata a Mario Monti per il taglio delle spese che non arriva (e che a questo punto bisogna chiedersi se sarà mai fatto) è giunta ieri dal suo ministro per i rapporti con il Parlamento, Piero Giarda. Il quale aveva tutt’altro scopo, ma tant’è. Interpellato dal Corriere della Sera, Giarda intendeva spiegare la propria posizione alla luce di quanto scritto da Libero il 14 aprile, ovvero che la spending review, l’operazione di controllo della spesa pubblica che gli è stata affidata, è ferma anche perché tra lui e Vittorio Umberto Grilli, viceministro per l’Economia, non c’è intesa sul metodo da usare né collaborazione nella raccolta dei numeri. I due, per dirla tutta, non si parlano nemmeno. Del tentativo di Giarda restano due cose. La prima è l’ammissione che l’operazione è in ritardo: doveva concludersi entro aprile, adesso il ministro fa sapere che «un primo report» non meglio specificato, ma chiaramente tutt’altro che definitivo, vedrà la luce «all’inizio di maggio». Si ignora la data conclusiva del lavoro. La seconda è il grido di dolore di Giarda. Il quale, mentre Grilli assicura che da parte del dicastero di via XX settembre «c’è la massima collaborazione per il progetto», sostiene l’esatto opposto: «La spending review è un’operazione complicata alla quale sto lavorando pressoché da solo e quasi a titolo personale». La colpa di questa situazione è del presidente del consiglio. Non è una colpa piccola. Il taglio della spesa pubblica è la riforma delle riforme, senza la quale il governo Monti è destinato al fallimento. Perché i conti non tornano: la crescita economica è di gran lunga inferiore alle attese (anzi, per l’esattezza la decrescita è maggiore del previsto); il Fondo monetario internazionale ha gelato l’esecutivo affermando che il pareggio di bilancio non sarà raggiunto nel 2013, ma - bene che vada - nel 2017; servirà con ogni probabilità una nuova manovra correttiva; la pressione fiscale il prossimo anno giungerà al 45,4% e più di così non può essere aumentata. Insomma, o si riduce la spesa o si muore. E la scomposizione in singole voci degli 800 miliardi che escono ogni anno dalle casse dello Stato è indispensabile per capire dove andare a tagliare. Senza spending review non può esserci nessuna diminuzione ampia e strutturale delle uscite. Il premier ha la responsabilità di aver organizzato nel modo peggiore l’operazione più importante. Non perché Giarda non capisca di economia (come lui stesso ama ricordare ai propri interlocutori, è stato presidente della Commissione per la spesa pubblica e sottosegretario al Tesoro nei governi dell’Ulivo), ma perché non ha gli strumenti. Che in questo caso sono i numeri dei flussi di cassa, dei quali dispone solo il Tesoro attraverso la Ragioneria generale dello Stato. E se Giarda, pur rifiutandosi ufficialmente di polemizzare, sostiene che sta lavorando «da solo», il senso dell’accusa è chiaro. L’intera operazione è affidata allo spontaneismo dei ministri, lasciati privi di indicazioni. Ne è prova l’incontro che c’è stato nei giorni scorsi a palazzo Chigi tra Giarda e i dirigenti della presidenza del Consiglio: al povero ministro che illustrava i criteri con i quali secondo lui si sarebbe dovuta fare la spending review, i grand commis hanno risposto contestando ogni punto. «Scena imbarazzante», racconta uno che c’era. Lo scetticismo è forte tra gli stessi colleghi di governo, uno dei quali sostiene che a Giarda è stata affidata la spending review «per compensarlo del fatto che i rapporti con il Parlamento non li gestisce più lui, dopo le belle figure che ha rimediato». Malignità, anche se è vero che da quando il ministro è stato surrogato dai sottosegretari Giampaolo D’Andrea e Antonio Malaschini scivoloni come quelli che portarono il presidente della Camera Gianfranco Fini a redarguire Giarda («invito il ministro a essere più rispettoso») non si sono più visti. Ma gli aspetti personali contano poco. Il problema è un po’ più serio: può l’operazione di controllo della spesa, dalla quale dipende il destino del paese, essere nelle mani di un ministro privo degli strumenti indispensabili e costretto a lavorare, per propria ammissione, «pressoché da solo e quasi a titolo personale»? È la domanda alla quale Monti dovrebbe rispondere. Se non ai contribuenti, almeno a se stesso. di Fausto Carioti