Pansa: Bossi come Mussolini, questo è il 25 luglio del Senatùr

Giulio Bucchi

Vi ricordate del 25 luglio? Prima o poi, i potenti troppo sicuri di sé incontrano questa giornata delle streghe e vanno a sbattere. Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini cadde, sfiduciato dal suo stesso partito, e fu arrestato da un Savoia che lui disprezzava, il re Vittorio Emanuele III. I paralleli personali sono sempre molto rischiosi. Umberto Bossi non è certo il Duce. Eppure  anche per il Senatur è scoccata l’ora più tragica: quella delle dimissioni. Un gesto insolito nella casta, che può segnare la fine di un lungo percorso politico. Iniziato nel 1984 con la fondazione della Lega lombarda e in apparenza destinato a durare per l’eternità. Errori terribili - Forse mi lascio prendere la mano da un confronto storico. Eppure vedo molte analogie nei tramonti di Mussolini e di Bossi. Il leader fascista venne travolto da una serie di errori terribili. Il primo fu di trascinare in guerra un paese impreparato a quell’avventura disperata e sanguinosa. Il secondo fu di non valutare sino in fondo la crisi del regime, testimoniata dagli scandali e dall’affarismo di troppi ras. Convinti di potersi permettere qualsiasi illecito pur di accrescere il proprio potere e le ricchezze che ne derivavano. Anche il Senatur ha commesso molti errori, sia pure su scala assai più modesta. Se le tre inchieste giudiziarie che mettono nei guai la Lega sono fondate, il primo passo falso è stato quello di confondere il pubblico con il privato. Per farla corta, Bossi ha permesso che la propria famiglia si giovasse dei finanziamenti arrivati dallo Stato al suo partito. Un furto bello e buono. In questo modo, ha lasciato crescere un retroterra di favori e di regalie che oggi, raccontati dalle cronache giudiziarie, fanno intravedere un piccolo mondo di profittatori, un retroterra di egoismi meschini. Dai restauri della villa di Gemonio, alle spese per comprare ai figli diplomi di studi, sino all’acquisto o all’utilizzo di automobili lussuose. Il tutto all’interno del cosiddetto Cerchio Magico, un clan famigliare dominato da due matrone, la Moglie e la Badante politica, figure degne di un cinepanettone. L’inizio della fine - Perché il leader della Lega, malgrado la fama di politico intelligente e astuto, non ha saputo evitare questa trappola? Ci vorrà un po’ di tempo, e altri chiarimenti giudiziari, per poter dare una risposta completa. Tuttavia qualche spiegazione s’intravede sin da oggi. La prima riguarda il gravissimo malore che nel marzo 2004 sembrò mettere fuori gioco per sempre il Senatur. L’ictus era pesante, ma lui riuscì a sconfiggerlo. Rivelando una resistenza fisica e una tenacia di carattere insoliti per la sua età di allora, 63 anni.  Ritornato alla politica attiva nel marzo 2005, Bossi deve aver pensato di essere più forte della morte. Per la malattia, aveva pagato un prezzo molto alto. La bocca andava per conto suo. I movimenti del corpo erano rallentati. Le parole gli uscivano a stento, diventando spesso un borbottio poco decifrabile. Al suo posto, chiunque altro si sarebbe ritirato dalla politica attiva, un mestiere che può essere stressante. Ma lui decise di rimanere alla testa della Lega.  Chi lo osservava da tempo ha subito compreso che il Senatur era cambiato, e non in meglio. Appariva più prepotente di prima, senza freni, pronto all’insulto volgare nei confronti degli avversari, considerata gentaglia da minacciare o da irridere. Un politico capace di straparlare a vanvera, di sparare cavolate assurde che i militanti accoglievano come il vangelo. Ma nessun partito si può guidare in questo modo. Il motivo è quasi banale: quando il leader è fuori controllo, anche i sottoposti perdono la testa. Cominciano a pensare che tutto diventi lecito. È quello che deve essere accaduto al tesoriere leghista, l’ormai famoso Francesco Belsito: un omaccione con l’aspetto del guardaspalle scartato per eccesso di peso.  Belsito - L’altra spiegazione del crac odierno risulta evidente nella figura di questo personaggio, l’alter ego finanziario del Senatur. Agli esordi, Belsito era un tizio qualsiasi che aveva iniziato la propria carriera politica da autista di un parlamentare. Via via è cresciuto sino a ricoprire delicati incarichi pubblici, come la vicepresidenza della Fincantieri. E a diventare il custode, al tempo stesso obbediente e incontrollato, del tesoro leghista: un malloppone di milioni di euro, versati dallo Stato, ossia da noi contribuenti, come rimborsi elettorali. Sappiamo bene che la classe dirigente leghista non è tutta uguale a Belsito. Ha saputo esprimere ministri di grande efficienza, sindaci sperimentati, parlamentari avveduti. Ma purtroppo per la Lega oggi le figure dominanti sono altre. Nei partiti spesso la selezione delle prime file ha esiti pessimi. La patologia diventa la norma. L’abbuffata - È così che le poltrone più delicate se le pappano gli inadatti. Non conosco se la senatrice Rosi Mauro, la badante politica dell’Umberto, abbia incassato fondi illeciti. Però mi sono sempre stupito che questa signora pugliese sulla cinquantina, sanguigna ed esagitata, già sindacalista in minigonna, ricopra la funzione di vicepresidente del Senato.  Qualcuno potrà ribattere: questa è la politica, bellezza. Nelle democrazie non sempre il potere si accompagna alle qualità necessarie a esercitarlo nel modo giusto. Comunque c’è un limite a tutto. Quando il confine tra la saggezza e l’errore non viene rispettato, può accadere qualsiasi disastro. Come la storiaccia che rischia di travolgere la parrocchia del Senatur. Ma che deve essere di monito per tutti i partiti.  All’inizio di marzo, avevo scritto su Libero che la Lega correva il rischio di essere l’unico movimento politico in Europa guidato da un uomo fuori di testa. E mi ero domandato se non fosse giusto costringere Bossi a ritirarsi. Nessuno si è provato a convincerlo. Ma quando arriva un 25 luglio sono i fatti a decidere. Per tutti.  È così che ieri Bossi si è dimesso. Molti, compreso il sottoscritto, erano convinti che non l’avrebbe mai fatto. Però l’incredibile è accaduto. Adesso non resta che aspettare quello che avverrà in Padania. Una regione inesistente, ma spesso infelice. di Giampaolo Pansa