Paragone: Il futuro del Carroccio? Solo Bobo può raddrizzare la rotta
La prima Lega era contro il sistema. La seconda Lega è stata dentro il sistema. La terza Lega cosa sarà? Proviamo a dare una risposta partendo dal fatto che ieri, anche dentro via Bellerio, hanno dovuto prendere atto che si è chiusa una lunga stagione politica. Quella legata alla leadership di Umberto Bossi, il quale resterà il Santo Graal, il Timoniere padano, il Capo, il Segretario, il quel-che-volete, ma senza più i poteri d’un tempo. Le prime due Leghe erano infatti nell’assoluto segno dell’Umberto da Gemonio, inventore con Berlusconi della Seconda Repubblica. La terza sarà fuori dalla leadership bossiana e dovrà navigare nelle acque ancora turbolente di una Terza repubblica che al momento sembra essere segnata dallo strapotere della finanza. Chi sarà il nuovo timoniere è facile da immaginare: Roberto Maroni, un altro varesino, un altro lombardo; il che riapre il conflitto col sempre inquieto Veneto. Ma andiamo con ordine. Cosa finisce. Finisce, dicevamo, una Lega pilotata da un leader troppo sognatore per restare impigliato nelle trame di Belsito. L’ho scritto ieri e lo ribadisco oggi: chi conosce un po’ Bossi sa la totale incapacità dell’uomo a gestire gli aspetti pratici delle vicende. Il che non immunizza Bossi, sia chiaro: a maggior ragione egli avrebbe dovuto scegliere meglio le persone cui affidare la gestione economica e patrimoniale del partito. Invece, s’è affidato a un personaggio che se dovessimo giudicare coi parametri leghisti risulterebbe imbarazzante. Bossi, dimettendosi, ammette questo errore. Ha ammesso questa leggerezza che oggi espone il Carroccio e la propria famiglia alle spigolature di un’inchiesta pesante e di un dibattito politico dove paradossalmente si cade per quelli che erano i cavalli di battaglia padani: gli sprechi della politica e i suoi costi. Vent’anni dopo la Lega e Bossi si ritrovano alla casella del Via senza la verginità e la freschezza di un tempo. E soprattutto senza la forza del suo leader. A Bossi resta - e gli viene riconosciuto - il carisma iconografico. «Mi dimetto per il bene della Lega», ha detto entrando al federale quasi a voler sottolineare una volta di più la sacralità della politica rispetto alla famiglia. Dimissioni irrevocabili. L’ultimo grande gesto, come tanti ne fece coi gradi del Capo: il ribaltone, l’alleanza con D’Alema, la secessione, il ritorno col Cavaliere… Già, Bossi e Berlusconi, ovvero il perimetro della Seconda Repubblica, la ragione sociale. Tutti gli altri dietro, schierati alla voce “anti”. Quel mondo che però Bossi e Berlusconi avevano saputo intercettare per primi è franato, scaraventando le maceria sulla punta dei loro piedi. Le istanze di modernizzazione e di cambiamento sono restate accartocciate nei programmi elettorali, tant’è che più dei guai giudiziari – sia per il Cavaliere sia per il Senatur – fanno male le accuse che arrivano dai capannoni. Dai “loro” capannoni. Le accuse della magistratura appesantiscono il conto, ma non sono il vero e proprio salasso. La disillusione nasce dall’aver tradito quel ruolo di “sindacato del nord”, ruolo unico nel panorama politico. Tasse, costo del lavoro, protezione delle partite iva, meno burocrazia, meno Stato: è qui che il Carroccio ha perso la partita, tradito dai suoi pseudo-federalisti (Calderoli su tutti: pasticcione come pochi nello scrivere un federalismo contestato dagli stessi sindaci col fazzoletto verde. Allucinante la frase con cui a Venezia accusò i borgomastri), e dai ministri amici (quel Tremonti, causa principale dell’incazzatura degli imprenditori del nord). Del resto erano anni che il Carroccio aveva progressivamente spostato il baricentro della propria propaganda politica dal federalismo – ridotto a puro decentramento – alla tutela dell’identità locale e nazionale insieme. Da qui l’ascesa di Roberto Maroni, l’uomo della sicurezza e degli unici risultati veri portati a casa dalla squadra leghista. Per questo quindi odiato in via Bellerio. Siamo così all’ultimo punto: il Bobo. È lui la guida del Carroccio, il triumvirato è una barchetta leggera buona per arrivare al congresso. Calderoli è citato nelle carte esattamente come lo è Bossi (non si capisce allora perché Bossi si dimette per il bene del movimento, mentre Calderoli accetta l’incarico…), quanto alla signora Dal Lago, è lì solo per rappresentare i veneti (una parte dei quali agita lo spauracchio della secessione interna) ma è un peso leggero o poco più. Dietro Maroni c’è un mondo nuovo, fatto di giovani e di amministratori locali. È da qui che la terza Lega deve ripartire per dimostrare la propria credibilità politica, lontana da figli di papà, da badanti e da tesorieri coi macchinoni. di Gianluigi Paragone