Bossi Il guerriero padano sedotto da Roma: storia, vizi, virtù del leader con sigaro e canotta

Matteo Legnani

Una fine tristissima; e in gran parte immeritata perché condizionata in maniera decisiva dalla malattia. Chi gli vuole bene, interpreterà le dimissioni di Umberto Bossi da segretario della Lega Nord come l’estremo sacrificio del leader per dare un futuro al partito che si è inventato dal nulla. L’ultimo gesto lucido di un politico di enorme talento, come anche i più acerrimi nemici gli hanno sempre riconosciuto. In un attimo, il vecchio leader avrebbe capito di essere stato ingannato dalle persone di cui più si fidava e avrebbe scelto di sacrificare se stesso e il proprio clan alla causa padana. Chi l’ha sempre disprezzato, sosterrà invece che le porcate del magna magna leghista che stanno emergendo, perfino per un mito come lui sono troppo grosse per resistere anche un giorno di più. Dirà che il Senatur sapeva, ma  era troppo debole e ha coperto i suoi figli impreparati, raccomandati e arraffoni, come fa il più classico dei padri italioti. Sentenzierà che se l’è meritata, che ha ucciso la sua creatura non avendo saputo tirarsi indietro per tempo, come spesso capita ai padri fondatori che divorano i propri figli. Gli inizi - Già nelle prossime ore si potrà forse capire chi ha ragione. Ma sarebbe ingiusto ricordare Bossi sotto la luce degli ultimi eventi, e forse anche degli ultimi anni. Il Bossi vero è finito l’11 marzo 2004, tradito nella notte da un ictus e dalla neve del suo Nord, che ne ha ritardato il ricovero all’ospedale. Prima, c’è stato l’uomo che ha rivoluzionato la politica italiana, anche più del fenomeno Berlusconi, che di Bossi ha saputo rubare il meglio.  È partito tardi, dopo i 35 anni, un diploma da perito tecnico elettronico, una finta laurea in medicina festeggiata due volte, un matrimonio fallito, un figlio e una gioventù insulsa in cui ha provato perfino a fare il cantante, incidendo col nome di Donato un disco che è lui il primo a desiderare venga dimenticato per sempre. Senza una lira in tasca, utilizzando come base logistica il monolocale in cui abitava la futura seconda moglie, la siciliana Manuela Marrone, ha iniziato a girare prima Varese e provincia, poi tutto il Nord, con quattro disperati a cavallo di una Citroen scassata. Con la determinazione disperata di chi sa di giocarsi l’unica possibilità e l’ironica saggezza dei figli del popolo, di cui Bossi ha orgogliosamente sempre rivendicato di far parte, propagandava idee rivoluzionarie e bislacche, e la gente gli dava del matto. Ma il coraggio, l’ottimismo e la faccia tosta all’Umberto non sono mai mancati. Così ha tirato diritto, con la sua rozza cultura da strada e osteria, sempre sicuro del successo finale. Dei leader, di quelli che nella vita costruiscono qualcosa di grande, Bossi ha sempre avuto la forza creativa. Ha mixato l’imprintig di estrema sinistra maturato nella militanza nel Partito di Unità Proletaria per il Comunismo, nei primi anni ’70 con le idee autonomiste assimilate dall’incontro con l’Union Valdotaine; ci ha aggiunto il pregiudizio anti-meridionalista che da sempre cova nel Nord, una spruzzata di orgoglio campanilista e l’egoismo pragmatico della provincia padana, che lavora, sa sacrificarsi ma vuol avere un ritorno anche quando è generosa e non ama essere presa in giro. Ne è nato il più grande partito locale italiano di sempre, il più grande partito popolare dopo il comunismo e, sbarcato per la prima volta in Parlamento nel 1987, anche il più vecchio fra quelli attualmente esistenti. Il popolo padano - Senza regalargli nulla, si può dire che è stato tutto merito di Bossi. Perché i suoi collaboratori, dall’illustre Miglio all’amico Maroni, al fedele Calderoli, l’hanno solo servito, al più ispirato, ma le idee, gli slogan, e la capacità di leggere l’attimo politico e l’anima della gente, che sono da sempre la vera forza della Lega, li ha messe sempre lui, il capo, come l’hanno sempre chiamato tutti nel partito, il numero uno senza numeri due. E guai chi gli si metteva contro: il politologo Miglio e l’industriale Rocchetta, epurati, i segretari nazionali Comino e Comencini, cacciati, perfino gli amici Gnutti e Pagliarini, ripudiati. D’altronde, i militanti seguivano solo Bossi. Ovunque andava lo baciavano, si accapigliavano per toccarlo gli facevano trovare torte e cibarie di ogni tipo, gli offrivano sigari che fumava e bottiglie di vino che prendeva senza bere né ringraziare. Bossi era il leader venuto dal basso, più rozzo e popolare dei suoi stessi sostenitori, ma a differenza loro, geniale. Lui ricambiava l’affetto regalando sogni e rivincite sociali e poteva permettersi tutto, comprese le contraddizioni. La Lega accoglieva tutti: alle elezioni del primo Parlamento padano nel 1997 si presentarono liste comuniste, cattoliche, liberal conservatrici, liste gay... c’era perfino la lista Pannella; una sorta di “bar di guerre stellari” in cui ognuno poteva dir la sua, a patto che non pretendesse di contar qualcosa o di criticare il capo. un innovatore - Si alleò con Berlusconi ma si  presentò a villa Certosa da Silvio che voleva assicurarsi la sua fedeltà in canottiera e calzoncini, come a dire «io sono diverso». Prese un passaggio sull’aereo privato del Cavaliere salvo poi definirlo «un tubetto del dentifricio» e far cadere il suo governo tre mesi dopo, andando avanti a chiamarlo «Berluskaiser» e «mafioso» per sei anni, fino alla riappacificazione alle Regionali del 2000 e alla creazione di un sodalizio personale capace di reggere anche alla rottura sul sostegno al governo Monti. Sbottò in tv contro la Chiesa e certi privilegi vaticani come mai nessuno con quel «zitti voi vescovoni falsoni che girate con la croce d’oro nei Paesi dove si muore a dire “bacia l’anello”», ma ha saputo cavalcare, seppure in maniera grezza, tutti i temi cari alla Chiesa, dalla famiglia alla bioetica. Liquidò Fini con quel «capisco la tua rabbia, fai politica da vent’anni e ti ritrovi con un partito da prefisso telefonico». Da sempre odiato dalla sinistra, è riuscito a penetrare nelle fabbriche e  prendersi il voto operaio del Nord sfruttando la rabbia sociale per le buste paga basse e l’astio per lo snobismo dei compagni da salotto, la paura per «gli immigrati che ci rubano il lavoro». Primo leader a parlare il linguaggio delle persone comuni, ha ucciso il politichese zittendo De Mita a «Porta a Porta», con quel famoso «Taches al tram» a commento del verbosissimo discorso dell’allora leader diccì. Da lui quando scese in campo Berlusconi mutuò il linguaggio forte, diretto, concreto, ancorato ai temi cari alla gente (dai soldi, alla paura della criminalità, ai valori tradizionali), aggressivo verso l’avversario. Ma i germi del tracollo covavano già prima della malattia che l’ha colpito. Il primo uomo in Italia capace di riunire i mille campanili del Nord sotto una sola bandiera e di dare al più grande popolo produttivo d’Europa  orgoglio identitario comune e la forza di rivendicare nei confronti dello Stato centrale i propri diritti e meriti, non è mai stato in grado o non ha mai voluto pensare alla propria creatura dopo di lui.  Ha saputo far rivivere 800 anni dopo lo spirito della Lega Lombarda radunando migliaia di persone a Pontida sotto lo spadone di Alberto da Giussano contro lo straniero (stavolta romano e non tedesco) e ha fatto leggere libri di storia a gente con la terza elementare ma non ha dato una prospettiva storica alla propria creatura. Sbarcato a Roma, ha sacrificato gli ideali, che pure continuava a propagandare, all’opportunismo politico e al calcolo di medio periodo, fino a diventare il più romano dei politici italiani e a svendere e imbastardire tutto: federalismo, difesa degli stipendi, lotta alle tasse. Non è un caso se la sua ultima immagine pubblica prima dell’ictus lo vede abbracciato al terronissimo Mastella, mentre intona «O sole mio» nel salotto di Bruno Vespa. Fine annunciata - Sul territorio la Lega è riuscita a esprimere parecchi amministratori apprezzati, e anche al governo i ministri padani si sono spesso dimostrati migliori di molti altri. Merito di una selezione spietata della classe dirigente e di una disciplina di partito che permetteva a chiunque di sapere esattamente cosa  fare e come farlo. Ma questo “leninismo” che permea la Lega, questa impossibilità quasi fisica di criticare il capo è stato anche una delle cause di quanto sta avvenendo ora. Molti sapevano, o sospettavano, la vita del Trota e di tutta la famiglia era chiacchieratissima, ma nessuno osava dir niente a Bossi. Perché lui non ha mai voluto sentirsi dir niente da nessuno, si fidava solo di se stesso e di chi aveva iniziato con lui nella Citroen scassata; guai a opporglisi.  La forza del sogno non è mai andata oltre la diffidenza per il diverso e la scarsa praticità del Senatur, vulcanico ma confusionario; e quando il male l’ha colpito, Bossi, che aveva nella fisicità animale una delle sue forze, ne è rimasto sconvolto intimamente e non ha potuto che chiudersi nella cerchia, non poi così magica, dei famigliari e più fidati vassalli. Da allora, il capo non è più stato avvicinabile da tutti e il movimento ha perso la sua carica innovativa. La Lega si è appiattita su Berlusconi e si è sclerotizzata nelle battaglie di sempre, senza però riuscire più a sorprendere. Sono mancate le idee del capo, il coraggio e la fantasia di inventarsi a ogni campagna elettorale slogan e battaglie diverse. Bossi ha anche scoperto la sua famiglia, della quale per dir la verità prima del 2004 non è che si fosse occupato poi molto. Colpito nel fisico, incalzato continuamente dalla moglie-badante, la sua massima preoccupazione negli ultimi tempi è stata garantire un futuro ai propri figli, anche a costo di un nepotismo che in un partito storicamente anti-casta come la Lega, ha creato fortissimi malumori. Il retroscena dice che mercoledì, quanto Calderoli gli ha raccontato il contenuto degli atti della Procura, con accuse pesantissime alla moglie, al Trota, al figlio Roberto, a Rosi Mauro e al tesoriere Belsito, Umberto ascoltasse attonito e continuasse a ripetere «Ma no, mio figlio è bravo, sta pagando il leasing, si è laureato»… Qualcuno poi gli avrebbe detto «Ma basta, che cazzo dici, sai quanto c’è costata la sua laurea?» Lui ha provato a chiamare Renzo, che non ha risposto,  quindi ha preso mesto la via di casa. Nella notte, il chiarimento con la famiglia. E le inevitabili dimissioni. D’altronde il capo, la dignità l’ha sempre avuta e non ha mai avuto paura di prendersi le proprie responsabilità. di Pietro Senaldi