Napolitano dopo Berlusconi azzoppa anche Monti

Giulio Bucchi

Giorgio Napolitano ieri ha assicurato che non intende trascorrere un altro settennato al Quirinale, perché «è necessario passare la mano, è necessario che si facciano avanti altri». Se dice il vero, tra poco più di un anno avremo di sicuro un nuovo presidente della Repubblica. Per capire se questa sia una notizia buona o cattiva, bisognerà vedere chi sarà il successore: i margini di miglioramento sono molto ampi, ma la storia quirinalizia - anche recente - insegna che si può fare ben di peggio. Oltre alle qualità di chi andrà a ricoprire l’incarico, sarà importante la sua provenienza: dopo aver avuto un dirigente storico del Partito comunista, prima del quale c’era un illustre tecnocrate figlio del Partito d’azione, sarebbe giusto che su quella poltrona sedesse un esponente dell’area liberal-conservatrice. Così, anche per non dare l’impressione che la prima carica dello Stato italiano sia una questione privata tra le diverse anime della sinistra. Napolitano lascia nel 2013: voi chi vorreste al Quirinale? Votate il sondaggio di Liberoquotidiano.it     Ma ci vorrà tempo affinché la sfida per il dodicesimo presidente della Repubblica entri nel vivo. Adesso quello che conta è la partita che sta giocando il presidente attuale. Napolitano sta svolgendo un ruolo da protagonista assoluto, che in effetti mal si concilia con il suo proposito ufficiale di defilarsi. Provengono dalla sua mano, infatti, i due colpi che hanno rivoluzionato il percorso finale di questa legislatura. Il primo è stato quello con cui, dopo aver discusso la mossa con la cancelliera tedesca Angela Merkel nella famosa telefonata del 20 ottobre, nemmeno un mese dopo ha fatto accomodare Silvio Berlusconi fuori da palazzo Chigi, per sostituirlo con Mario Monti. Il quale adesso guida quello che è a tutti gli effetti un governo del presidente. Lo si è visto anche nei giorni scorsi, quando Napolitano ha assestato il secondo colpo letale, stavolta alla creatura alla quale lui stesso aveva dato vita. Negando a Monti la copertura politica per il varo di un decreto che riformasse il mercato del lavoro, e costringendo così il presidente del Consiglio a ripiegare su un ben più modesto disegno di legge, non solo ha reso evidente agli occhi di chiunque chi sia il vero capo del governo, ma ha gettato Monti in una palude - quella dei mercanteggiamenti con i partiti e delle imboscate parlamentari - dalla quale il professore, bene che vada, uscirà ridimensionato. «Lame duck», anatra zoppa li chiamano nelle democrazie anglosassoni quei premier costretti a percorrere l’ultimo tratto del mandato con un piede nella tagliola di un Parlamento ostile: situazione nella quale Monti sta per infilarsi. Complice anche la pausa pasquale, l’iter della riforma non potrà iniziare sul serio prima del 21 maggio, cioè fin quando non saranno stati votati i ballottaggi delle amministrative: nessun partito, sino a quel momento, cederà un millimetro su un tema esplosivo come quello del lavoro. Come sempre, poi, le Camere dovranno dare la precedenza ai decreti in scadenza. E se la riforma non sarà già in fase avanzata prima della pausa estiva, il problema si farà serio. Perché alla ripresa autunnale senatori e deputati saranno alle prese con la sessione di bilancio, ma soprattutto perché a settembre sarà iniziata la campagna elettorale per le politiche. Tirando le somme Maurizio Gasparri, che di lavori parlamentari qualcosa ne mastica, ritiene che ci sia «una possibilità su cento che le nuove norme sul lavoro possano vedere la luce». Non bastasse, l’apertura di uno scontro sulla riforma del lavoro apre tutti gli altri fronti di guerra possibili all’interno della sconquassata maggioranza. Difficile, dopo aver visto impiombare così la riforma del lavoro chiesta dalla Banca centrale europea, che il Pdl possa digerire una revisione urgente della governance Rai, ad esempio. Insomma, Monti ora deve fare i conti con una coalizione difficile, se non impossibile, da gestire. Non c’è bisogno di essere particolarmente maligni per capire chi trae vantaggio da tutto questo. Se il primo colpo di Napolitano ha fatto fuori Berlusconi e il secondo ha azzoppato il governo tecnico, resta sulla scena un solo attore forte. È vero che se la riforma fosse stata introdotta tramite decreto il Pd avrebbe avuto molte rogne in meno: dinanzi al diktat del governo e alla minaccia di causare il rialzo dei tassi sul debito pubblico, Pier Luigi Bersani e i suoi avrebbero con ogni probabilità ingoiato il rospo, giustificandosi dinanzi ai propri elettori con la mancanza di alternative. Mentre ora che la riforma è inserita in un disegno di legge delega il Pd è «costretto a navigare in mare aperto», come nota il pidiellino Osvaldo Napoli. Ma è vero pure che così il rischio che la riforma del lavoro non si faccia, o venga stravolta in Parlamento, è altissimo: il Pdl e il terzo polo, unici favorevoli all’approvazione senza modifiche del testo del governo, non hanno i numeri per blindarlo. E dal conflitto parlamentare l’unico che ha tutto da guadagnare è quel Partito democratico che già vedeva i propri consensi ridursi a causa delle riforme proposte dal governo. Bersani vince sia se la riforma del lavoro viene riscritta nelle parti riguardanti l’articolo 18, sia se essa muore affogata nel pantano, per il tripudio della Cgil. In ambedue i casi il bilancio finale del governo dei tecnici dovrà essere considerato negativo e il principale responsabile sarà stato il presidente (uscente?) della Repubblica. di Fausto Carioti