Al cinema riesumano Dalla: omaggio o sciacallaggio?

Andrea Tempestini

Venerdì (dopodomani) esce nelle sale italiane Quijote di Mimmo Paladino con Lucio Dalla nel ruolo di Sancho Pancha. Girato sei anni fa, non aveva trovato distribuzione manco nelle sale d’essai. Viene pubblicato solo adesso e in quasi concomitanza con la dipartita (tre settimane or sono) del cantautore. Concomitanza che è difficile ritenere casuale (potete scommetterci, se Dalla moriva, poniamo nel 2020, Quijote rimaneva in naftalina per 14 anni). «È uno sciacallaggio, una sporca speculazione» ha già  tuonato qualcuno. «No, è un doveroso omaggio a un grande artista», ribatte qualcun altro. A luci accese, possiamo dire  che la pubblicazione del film di Palladino è un omaggetto. E una speculazioncina. Sciacallaggio è l’operazione mercantile che si compie a spese di un trapassato buttando nei cinema una sua puttanata giovanile, qualcosa che la buonanima avrebbe pagato pur di toglierla definitivamente dalla circolazione, una macchia che lordava una fedina immacolata. Be’, Dalla sarebbe contento di sapere che questo suo filmetto di 70 minuti ha finalmente trovato la luce, un’operazione  con molti quarti di nobilità culturale che arricchiva il suo curriculum. E non ci sentiamo di buttare la croce addosso ai piccoli distributori indipendenti che cercano di cavare qualche soldino da un’operazione largamente in perdita. Il film finora non ha avuto uno spettatore pagante che è uno, eppure qualcosina deve essere costato, dal momento che è poco credibile che i grossi nomi coinvolti (Dalla e Peppe Servillo, Remo Girone e Alessandro Bergonzoni, Edoardo Sanguineti e Enzo Moscato) si siano tutti prestati a lavorare gratis. Speculazioncina e omaggetto. Sì, perché dubitiamo che  per la massa dei fan del Lucio, la visione di Quijote sia occasione indimenticabile. Il film di Palladino è semmai l’ennesima riprova che quello di Dalla per il cinema sia un amore non corrisposto. Pur coinvolto ripetutamente come attore, e pur essendo naturalmente una “maschera cinematografica” Lucio non è mai riuscito a lasciare sul grande schermo un segno lontanamente paragonabile a quello che ha marchiato le apparizioni sui palcoscenici. E questo nonostante le sue molte frequentazioni altolocate, da Fellini a Pupi Avati (che lo impiegò, senza successo, in La mazurka del barone della santa e del fico Fiorone). Qui l’idea di fargli fare  il Sancho (contrapposto allo stralunato don Chisciotte di Peppe Servillo) poteva sembrare azzeccata. Un Sancho magari sui generis, di fisico rattrappito, occhialuto e sconcertato come un Woody Allen irsuto, sembra all’inizio plausibile, col suo borbottio emiliano, come portatore di buon senso di filosofia terra terra  in contrasto con le folle visioni del cavaliere della Mancha. Ma presto t’accorgi che Palladino non ha voluto farne un personaggio, solo una macchia, un riferimento figurativo in un paesaggio che non assomiglia certo alla Mancha festosa di Almodovar, ma ai deserti post apocalittici molto frequenti nella pittura di Palladino e di altri artisti della transavanguardia. di Giorgio Carbone