Facci: i professori non fanno pagare gli errori ai giudici
Sappiamo poco di quel «pacchetto giustizia» che ha messo d’accordo, pare, il governo e i segretari politici che lo sostengono: ma ci sono tre punti dei quali sappiamo anche troppo. Vediamoli. Responsabilità civile dei giudici L’hanno già capito tutti: si punta a far niente, a trovare una scappatoia che accontenti l’Europa e anche i magistrati. Basta fare una legge all’italiana, cioè che non funzioni. Al governo non importa nulla che l’80 per cento degli italiani votò una legge inapplicabile che prevede 9 gradi di giudizio (3 per l’ammissibilità, 3 per le responsabilità, 3 per la rivalsa dello Stato) e che in 25 anni ha ammesso solo 34 cause con solo 4 condanne; al governo importa che la Corte di giustizia (sentenza C-379/10) si è accorta che la legge italiana è fuori dal mondo e ha sancito che i giudici italiani dovrebbero essere denunciabili anche per errori di interpretazione e valutazione dei fatti e delle prove. E questo potrebbe anche passare, in una nuova legge: ma se il meccanismo rimarrà vischioso com’è ora (gli avvocati in genere sconsigliano anche solo di provarci) e se i magistrati non dovranno pagare di tasca loro, che è il punto chiave, tutto resterà come prima. Nel caso, il risarcimento continuerà a pesare sullo Stato come ora, non sul magistrato: la causa si seguiterà perciò a farla allo Stato (che saremmo noi) e nel caso pagherà lo Stato che potrà rivalersi sulla toga. Il che non accade ora e non accadrà in futuro E’ su questo che il Csm non è disposto a mollare: cosicché il magistrati possa continuare a non temere le conseguenze delle proprie azioni, come invece accade per altri professionisti. Pare che su questo i tre segretari abbiano trovato un accordo: il che significa soltanto che Angelino Alfano ha ceduto. Allungare la prescrizione L’Unione europea ha detto che i nostri processi per corruzione durano troppo e che i nostri termini di prescrizione sono troppo brevi. Tutto vero. La prescrizione è sempre una sconfitta: per lo Stato e per le parti offese. Sinché si prescrivono resteranno 170mila l’anno è inutile vagheggiare «alti commissariati», dunque la proposta sul tavolo prevede un allungamento dei tempi che corrisponda effettivamente al diminuito interesse per il perseguimento di un reato. A sinistra, probabilmente, come vorrebbero i magistrati, si punta anche a congelare la prescrizione dopo il rinvio a giudizio. Manca un tassello, però: ed è quello che, mancando, permetterebbe ai togati di sfruttare l’allungamento dei tempi soltanto per prendersela ancor più comoda di quanto facciano oggi. Questo tassello si chiama «processo breve», ossia una scansione certa dei tempi di ciascun grado di giudizio che, se non rispettati, diano luogo a responsabilità disciplinari. Su questo Casini e Alfano sono d’accordo. Il Pd decisamente meno. Previsione: al momento opportuno si scatenerà l’inferno. Abolire la concussione Eliminare questo reato appare sacrosanto, ma al tempo c’è il rischio che le indagini per corruzione subiscano uno stop clamoroso, tanto che senza la figura del «concusso» l’inchiesta Mani pulite forse non sarebbe mai nata. Il concusso è una vittima, per l’esempio l’imprenditore che paga malvolentieri un incaricato di pubblico servizio (tipicamente un politico) per ottenere qualcosa di cui ha diritto, oppure per evitare conseguenze negative. Non va confusa con l’estorsione. Negli ultimi anni la giurisprudenza ha giustamente teso a teorizzare una sorta di «concussione ambientale» intesa come uno scenario ricorrente - in Italia - in cui un privato pensa di pagare una stecca non perché gliela chiedano o lo costringano, ma perché è convinto di doversi adeguare a una prassi consolidata. Questo, però, ha aumentato la storica confusione attorno a questo reato, perché c’è il problema di distinguere tra chi chiede effettivamente tangenti e chi dall’altra parte è disposto a pagarle più che volentieri. Tutta la prima parte di Mani pulite, per esempio, fu condotta come se ci fossero dei politici ricattatori contro dei poveri imprenditori vessati da un racket, ma il tempo ha evidenziato una storia ben diversa. Il sistema era talmente oliato da rendere impossibile il comprendere chi, tra imprese e partiti, avesse il coltello dalla parte del manico. Si parla sempre dell’arresto di Mario Chiesa, ma mai della sua condanna: gli affibbiarono sei anni, sei mesi e sei miliardi da restituire (il 160 per cento dei soldi ricevuti) mentre la controparte imprenditoriale, cioè il concusso, dovette rimborsare solo il 15 per cento senza che frattanto avesse mai smesso di lavorare: la sua impresa vinceva gli appalti da vent’anni, con ogni Mario Chiesa di turno, e avrebbe continuato a farlo. Altri imprenditori se la cavarono con meno di due anni e la condizionale, ed ecco che cosa disse Mario Chiesa: «Tangentopoli non nasce solo per la prepotenza dei politici. Di imprenditori estorti non c’è nemmeno l’ombra... corruttori pronti a prendere calci nel culo, a subire ogni vessazione, sempre pronti a presentarti ventisette donne pur di non uscire dalla loro nicchia ed evitare di misurarsi col libero mercato... Una logica da gironi danteschi: nel primo c’erano le imprese garantite per i lavori a cavallo del miliardo, nel secondo quelle per opere sui tre miliardi... sino alla Cupola, sei o sette imprese che si riuniscono e pianificano investimenti e leggi ad hoc per dividersi gli appalti secondo una logica mafiosa». Sciocchezze? No, perché le ha indirettamente confermate il pm Piercamillo Davigo: «Le imprese si sono sempre giustificate dicendo che erano state costrette a farlo, che erano concusse, ma quello che si è appurato nei processi o nei patteggiamenti, con le innumerevoli condanne, mi fa propendere per l’altra ipotesi, quella di una prevalente corruzione. Anche perché, molte volte, al versamento delle tangenti si accompagnavano sistematiche pratiche di alterazione delle gare attraverso gli accordi tra le imprese stesse. Insomma, molti imprenditori costituivano una categoria di soggetti abituati a vivere di ‘protezione’, al riparo della concorrenza, con un mercato privilegiato in cui gli appalti venivano suddivisi e spartiti al loro interno; in questa situazione il costo delle tangenti era rappresentato, a ben vedere, da cifre tutto sommato modiche rispetto ai benefici che se ne ottenevano». Il problema, enorme, è che eliminare il «concusso» rischia di equivalere a un’eliminazione dei «pentiti» nei processi di mafia: non parlerebbe più nessuno, e addio indagini. D’altra parte il concusso resta spesso una figura ambigua che tende a farla franca e, non di rado, a raccontare balle che piacciano a sè o agli inquirenti. Facile che a Mario Monti interessi più che altro una generica uniformazione del nostro ordinamento a quello europeo, dove la concussione non esiste: l’idea è che tizio sia corrotto oppure no, punto. Il Guardasigilli Paola Severino, dunque, potrebbe puntare a diminuire la pena per il «corruttore» (ex concusso) qualora collabori. Ma perché dovrebbe farlo, spontaneamente, resta un mistero. di Filippo Facci