Le toghe rosse in panchina Ora il Cav se la gioca alla pari
Prima d’iniziare la sua avventura politica Silvio Berlusconi non aveva pendenze penali di pubblico rilievo. Dopo s’è scatenato l’inferno. Diciotto anni di guerra, condotta con molti colpi bassi, da una parte e dall’altra, è possibile si concludano in apparente equilibrio: il politico rinuncia a candidarsi verso più alte mete e la macchina giudiziaria rinuncia a tentare di stritolarlo. Posto che quella che segue non è una riflessione sulle vicende giudiziarie di una persona, semmai sull’inesistente giustizia, mi pare opportuno avvertire che quel genere d’equilibrio ha un suo senso logico, ma è nemico del bene collettivo. La sentenza della cassazione, che ha cancellato la condanna inflitta a Dell’Utri, segna un solco molto preciso, e positivo: non respinge una sentenza per difetti formali, ma respinge un metodo, un costume giudiziario, con parole nette sia contro magistrati che si sono dimenticati l’uguaglianza del cittadino davanti alla legge, sia contro giudici che hanno preteso di fare i legislatori, inventando un reato inesistente, vale a dire il concorso esterno in associazione di stampo mafioso. Questo modo di procedere è corretto. Non hanno assolto Dell’Utri, hanno condannato il processo, hanno chiesto di farla finita con le aule di giustizia degradate ad arena in cui si sfidano opposte fazioni politiche, di mandare a casa procuratori e procure che si sentono incaricati di missioni politiche. I partigiani se ne devono andare, prima di tutto perché offendono la memoria dei Partigiani, quelli veri. Così andrebbe bene. Ma la domanda è: sarebbe stato possibile, se a Palazzo Chigi ci fosse ancora Berlusconi? Per rispondere affermativamente, con sicurezza, occorre essere dotati di una qualità che ci manca: l’ipocrisia. Ci sono le prove: la sentenza di secondo grado, più che giustamente cassata, già affermava che l’imputato era da considerarsi collaterale ai mafiosi fino a una certa data, ma da un bel giorno in poi non più, quel giorno coincideva con la nascita di una nuova formazione politica. Lessi la sentenza e pensai: questi hanno fatto politica, si sono regolati osservando varie stelle, ma non quelle del codice. Nel frattempo le procure combattenti provavano a dimostrare un’altra castroneria: la mafia mise le bombe per aiutare proprio quella nascente forza politica (Forza Italia). Ci provarono incuranti delle date e della logica, per giunta continuando a insistere su una trattativa che, ove mai sia esistita, coinvolse Scalfaro, Ciampi e Conso. Eppure le armi continuavano a crepitare, né s’accennava ad alcuna tregua. Nell’infuriare della battaglia Berlusconi adottò un comportamento che considero una colpa: non ritenne possibile cambiare la giustizia, per l’Italia e gli italiani, ma puntò a cambiare i verdetti che lo riguardavano. Da qui anni di polemiche mentecatte, con largo uso di latinorum per bifolchi. Quando ci provò, però, con l’ottima legge sulla non riprocessabilità degli assolti, la Corte costituzionale intervenne con detestabile cinismo e faziosità politica. Riassumendo: le procure continuavano a partigianeggiare; i giustizialisti a brandire le forche mediatiche; il centro destra a far da scudo umano nei confronti del capo; e la cassazione non adottava, sui casi con peso politico, il coraggio della nitidezza, ora ritrovato. Morale: la giustizia di oggi fa più schifo di quella di venti anni fa, che già faceva schifo; i magistrati sono sempre di più una corporazione; i più giovani si sono dimenticati il diritto; Berlusconi resta senza condanne. Noi scontiamo per tutti. Ed eccoci al nuovo equilibrio: i poteri che contano, a cominciare dal Quirinale, hanno suonato il gong di fine incontro. Le prescrizioni si riconoscono (poi si scrivono motivazioni buone per la condanna, ma tanto non servono), i processi vanno a velocità normale, quindi lentamente, la cassazione torna al ruolo che costò a Corrado Carnevale anni d’inquisizione, quindi bonifica lo zoticume insaccato nelle sentenze. All’orizzonte resta un dettaglio: la causa civile per il risarcimento nel caso Mondadori, con i 564 milioni che ballano. Ho visto che Carlo De Benedetti, peraltro con ottimi argomenti, è partito all’attacco sia del governo Monti che di Bersani, quindi del Pd che lo sostiene. Sono certo che lo fa per ragioni ideali, dando voce a quel che pensa, ma mi punge vaghezza che anche il quadro giudiziario gli suggerisca la necessità di smuovere le acque. Se le cose stanno come descritte, però, nessuno parli di «pacificazione», perché quello tratteggiato non è un equilibrio di civiltà, ma la resa all’inciviltà. La malagiustizia resta a tutti noi, e proprio non vedo perché dovremmo esserne contenti. di Davide Giacalone