Asse tra Berlusconi e Bersani: addio al bipolarismo
Fine del bipolarismo, anche se nessuno di quelli che gli stanno scavando la fossa ha il coraggio di dirlo. Fine del principio - politico, ma pure etico - per cui i candidati premier e le alleanze di governo vengono proposti agli elettori prima del voto e scelti da costoro nei seggi. Fine del premio di maggioranza, senza il quale gli accordi per governare dovranno essere fatti dopo le elezioni, e quindi alle spalle dei cittadini. Più dell’avvento di Mario Monti a palazzo Chigi, più della promessa del Cavaliere di non candidarsi premier, l’autunno del berlusconismo è rappresentato dalla bozza di riforme preparata dalle teste d’uovo di Pdl, Pd e Udc. In tutti questi anni Silvio Berlusconi ha portato avanti, anzi ha incarnato, un modello di capo del governo che trova la propria legittimazione non nei partiti, ma nel voto degli elettori: era il modello del «sindaco d’Italia», come lo chiamava lui stesso, ovvero della «elezione diretta del premier, non sottoposto ai partiti, da parte dei cittadini». Berlusconi aveva anche detto che il suo obiettivo era concludere la propria avventura politica «lasciando un sistema con una casa dei moderati ed una casa della sinistra che si confrontino». Due partiti, addirittura: niente di più lontano da quello che si vedrà se la bozza diventerà legge. Il progetto sulle scrivanie di Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini è una versione corretta del proporzionalismo alla tedesca, ovvero del modello elettorale più gradito ai centristi, con tanto di clausola di sbarramento al 5%. La correzione consisterebbe nell’affiancare alle liste proporzionali un numero di collegi, tramite i quali eleggere una quota importante di parlamentari. Il risultato di questa alchimia sarebbe una sovra-rappresentazione dei partiti più grandi (cioè di quelli che hanno almeno il 10% dei voti) ai danni degli altri. Ogni partito si presenterebbe per conto proprio: a differenza di quanto avviene oggi, non vi sarebbe alcuna convenienza nell’allearsi. E ogni partito avrebbe come candidato premier naturale il proprio leader. Si tratterebbe però di candidature virtuali: l’assenza di premio di maggioranza e la frammentazione del sistema politico italiano (forse ridotta, ma certo non eliminata dalle nuove regole) darebbero vita a un Parlamento anch’esso frammentato, nel quale i giochi veri - a partire proprio dalla scelta del premier - sarebbero decisi non dagli elettori con il voto, ma dalle segreterie dopo di esso. Dal sistema elettorale in incubazione, infatti, uscirebbero rappresentate in Parlamento almeno cinque liste. In ordine di presumibile consistenza sarebbero il Pd, il Pdl, il Terzo Polo, la Lega e un cartello dei partiti a sinistra del Pd. Né Pd né Pdl, sondaggi alla mano, avrebbero chance di ottenere la maggioranza dei seggi. Il Terzo polo avrebbe quindi ottime probabilità di fare l’ago della bilancia tra i due partiti maggiori, e questo spiega perché Casini è disposto ad accettare un meccanismo non perfettamente proporzionale: il peso contrattuale dei suoi sarebbe comunque altissimo. Oltre che per i centristi, il sistema pare fatto apposta per le grandi coalizioni. Come quella che all’indomani del voto dovrebbe sostenere una riedizione, magari in versione un po’ più politica, del governo Monti, secondo le indicazioni che Corriere e Repubblica hanno già iniziato a fornire ai partiti. Insomma, le nuove regole elettorali darebbero vita a una situazione che qualcuno può anche trovare apprezzabile, ma che non ha nulla a che vedere con il bipolarismo e gli altri principi che Berlusconi intendeva tramandare ai posteri. Il che spiega le cautele con cui Gaetano Quagliariello, autore per il Pdl delle trattative sulle riforme, sta affrontando la questione. «Il lavoro deve essere ancora completato e il risultato dovrà essere sottoposto ai competenti organi dei partiti», frenava ieri il vicecapogruppo del Senato, assicurando che le indiscrezioni sulla nuova legge elettorale mischiano «realtà con fantasia». In cambio delle rinunce che è chiamato a fare, il Pdl otterrebbe più poteri per il presidente del Consiglio, il quale potrà revocare i ministri e chiedere al capo dello Stato di sciogliere le Camere. Un risultato positivo, ma pur sempre legato all’approvazione della riforma costituzionale, assai più complessa e incerta della revisione della legge elettorale. Grazie alla quale il Pdl - e qui entriamo nel campo della politica meno nobile - guadagnerebbe comunque la conferma, nella prossima legislatura, di una quota importante di parlamentari, le cui garanzie di rielezione sarebbero senza dubbio superiori a quelle garantite dal sistema attuale. Inutile dire che l’aspetto del «più mandati per tutti» ha il suo peso nelle decisioni del Pdl. E a proposito di verità imbarazzanti: la bozza della nuova legge prevede che agli elettori siano sottoposti i candidati dei collegi, scelti dai partiti, e i candidati delle liste. Che sarebbero bloccate, proprio come quelle attuali. E il ritorno delle preferenze, con cui tutti si riempiono la bocca? Non interessa a nessuno e questa ne è la conferma. di Fausto Carioti