La sinistra aiuta i No Tav: ecco chi minaccia l'Italia
Sabato la protesta flop a Roma e quella in Val di Susa. Oggi altro corteo verso il cantiere dell'alta velocità. I No Tav non si arrendono anche se l'adesione alla manifestazione della Capitale è stata un flop. Poco importa, perché il risultato cercato è stato ottenuto: autostrade e tangenziali occupate sia a Roma sia in Piemonte. Di seguito il commento di Giampaolo Pansa. Alcuni segnali danno i brividi perché ci riportano al clima avvelenato di tanti anni fa. I cortei degli ultrà anti Tav diventano sempre più violenti. La protesta si tramuta in guerriglia. Chi non è d’accordo con i guerriglieri e abita in Val di Susa rischia rappresaglie pesanti. Le scorte di alcuni ministri sono già state rafforzate. E per non farci mancare nulla, poiché viviamo nel 2012 e non nel 1970, ecco gli attacchi degli hacker informatici ai siti del comune e della provincia di Torino, affiancati da un’aggressione al sito del governo. Esiste poi una seconda circostanza che è da suicidi sottovalutare. La scuola di terrorismo della Val di Susa ha aperto sezioni in molte altre città italiane. Anche negli anni Settanta accadde così. Il movimento studentesco, poi diventato il Movimento, all’inizio sembrava un bubbone circoscritto a Milano, Roma e Torino. Ma in poco tempo si diffuse dovunque. I picchiatori armati di sbarre, quelli che andavano all’attacco urlando «Uccidere un fascista non è reato!», conquistarono anche centri minori. Come un’erba cattiva difficile da estirpare. Infine c’è un terzo fatto da non dimenticare. I cortei violenti e le battaglie di piazza hanno una conseguenza fatale: gli omicidi. A Milano, nel novembre 1969, negli scontri in via Larga perse la vita un agente di polizia, Antonio Annarumma, colpito da un dimostrante con un tubo d’acciaio. Meno di un mese dopo, ci fu la strage di piazza Fontana. E di lì iniziò un tempo infame, lungo anni e anni. Dominato dalla discesa in campo delle Brigate rosse e di un parallelo terrorismo nero. Mentre scrivo, mi domando se sia utile ricordare quanto accadde allora. La violenza politica è un affare di giovani che, di solito, non vogliono ascoltare le prediche degli anziani. Chi ha meno di trent’anni può anche aver studiato, ma non sa nulla di quanto occorra a una società per non morire. La prima condizione è l’ordine. Senza la certezza che il disordine non prevarrà, è impossibile realizzare qualsiasi sviluppo, la famosa crescita che tutti invochiamo. Sotto questo aspetto l’Italia è un paese sfortunato. Dopo i disastri provocati dalla cattiva politica, aveva trovato una salvavita nel governo dei tecnici. So bene che sul conto di Mario Monti e dei professori le opinioni non sono concordi. Anche a Libero succede così e mi sembra una faccenda normale. Ma ogni governo ha bisogno di tranquillità e non di focolai d’infezione della forza di quello che si sta aprendo in val di Susa. Forse non ci rendiamo conto di quanto si estenda con rapidità il virus degli anti Tav. Come accade nei film horror, il mostro è un mutante che divora se stesso, per rinascere subito in forme ogni volta più orrende. Rispetto a un anno fa, in val di Susa è cambiato quasi tutto. Tanto che i vecchi capipopolo stanno perdendo autorità. Lo conferma la figura di Alberto Perino, un pensionato di banca che sino a ieri sembrava il leader della protesta. Oggi il profilo di questo anziano signore, che mostra con orgoglio il gomito fratturato da una manganellata della polizia, nonostante i proclami che lancia ogni sera sta svanendo nel ridicolo. Perino non è più di moda in Val di Susa, anche se crede di esserlo ancora. Qui il potere è passato a figure anonime della rete internazionale anarchico insurrezionalista. Lo testimonia Repubblica, un giornale affidabile nelle cronache sulla Tav. Venerdì 2 marzo raccontava dell’arrivo in valle di tanti violenti senza volto: «Hanno accenti lombardi, romani, a volte parlano francese e greco. Arrivano ai presidi con i caschi nascosti negli zainetti e sanno lanciare una pietra a colpo sicuro. In luglio erano attorno al cantiere di Chiomonte, dove sono tornati anche a dicembre per la lunga giornata di scontri nei boschi». Per la prima volta nel dopoguerra, un pezzo d’Italia è sottratto all’autorità imparziale dello Stato. E le azioni parallele in molte altre città inducono a temere che questa ferita si allargherà. Colpisce nel vedere torme di giovani che vivono in regioni molto lontane dalla Val di Susa andare all’assalto sventolando la bandiera dei no Tav. Questi ragazzi mettono in gioco il proprio futuro per un progetto eversivo che li rovinerà. A illuderli sono gli slogan incendiari degli anti Tav valsusini, raccolti da Niccolò Zancan della Stampa, un cronista che rischia ogni giorno il pestaggio. È un coro assurdo. «La caccia all’uomo è di una violenza insopportabile, come ai tempi del fascismo». «Lo Stato siamo noi, qui non c’è più democrazia». «Ora e sempre resistenza. Se riusciremo a portare la battaglia nel resto d’Italia, potremo vincere». «L’obiettivo vero è di creare tante Val di Susa». Tuttavia esistono soggetti ben più forti che rifiutano di vedere il rischio rappresentato dalla piaga in cancrena degli anti Tav. È una responsabilità pesante che, prima di tutti, riguarda alcuni partiti politici. La Sel di Nichi Vendola, l’Idv di Antonio Di Pietro, Rifondazione comunista di Paolo Ferrero e altre piccole cordate di sinistra, quelle che Romano Prodi definiva «le frange lunatiche». Accanto a loro c’è la Fiom-Cgil di Maurizio Landini che progetta uno sciopero generale in val di Susa. Senza riflettere su una circostanza evidente: in quel territorio le attività economiche sono già allo stremo. E scioperare aggiungerebbe soltanto danno al danno. I partiti che strizzano l’occhio ai violenti lo fanno per una meschina questione di fatturato elettorale. Si stanno avvicinando le elezioni amministrative di maggio. Conquistare più voti li aiuterà a trattare con il Partito democratico da posizioni di forza. A Di Pietro e a Vendola dell’interesse nazionale non importa nulla. C’è da sperare che il Pd rifletta bene prima di allearsi con loro. Però non scommetterei un euro sulla compatezza del vertice democratico. Attorno a questi partiti sta emergendo uno spettro già conosciuto in altre epoche. È quello del «Secondo fronte» che guarda al ribellismo con l’occhio dello zio bonario, pronto a perdonare qualunque mattana dei nipoti. Il catalogo è ampio. C’è Michele Santoro che spiega: «In Val di Susa non c’è guerriglia, ma soltanto resistenza alle forze dell’ordine». Poi Corrado Formigli che si domanda se quanto accade non sia una rivolta di popolo. E il solito don Andrea Gallo che conciona: «I no Tav sono come i partigiani della guerra di liberazione». E non è ancora nulla rispetto agli scritti privi di senso sfornati da intellettuali radical come il professor Maurizio Viroli. Sul Fatto quotidiano tesse un elogio di Luca Abbà, il no Tav che si è bruciato da solo con l’alta tensione. Un cavaliere dell’ideale da affiancare a Giorgio Ambrosoli, Ferruccio Parri e Martin Luther King. E chi non sta con Abbà, strilla Viroli, appartiene all’Italia dei servi. Ci sono tutte le condizioni perché si ripeta la commedia tragica che tanti anni fa ebbe per protagonista la meglio anzianità della sinistra italica. Me li ricordo bene gli orrori di quel tempo. Il manifesto contro il commissario Calabresi assassino dell’anarchico Pinelli. Le litanie sulle Brigate rosse che erano di destra, guidate da un Renato Curcio fascista iscritto a Ordine nuovo. Poi quelle sui compagni che sbagliano. Infine la richiesta di clemenza per i terroristi rossi, vittime di una ricerca di libertà dal capitalismo andata un tantino sopra le righe. Se prevarrà il bis di quegli errori, una replica dispiegata nella sua geometrica potenza mediatica, vorrà dire che la democrazia italiana è alla frutta. E non la salverà neppure un super governo di super tecnici guidato da un super Monti. di Giampaolo Pansa