Il certificato antimafia: ecco la 55esima tassa di Monti
L’idea era così bislacca che perfino il presidente del Consiglio Mario Monti quando ha distribuito ai suoi colleghi la bozza del decreto di semplificazione fiscale con le nuove norme sul certificato antimafia ha fatto annotare dai suoi uffici (come si può vedere nel documento riportato qui accanto): «n.b. la Severino potrebbe muovere osservazioni». Non sappiamo cosa abbia osservato il ministro della Giustizia, che quel certificato pensava di abolire anche per le categorie che già erano costrette a presentarlo e rinnovarlo. Certo alla fine nel decreto è entrata la norma che estende l’obbligo di certificazione antimafia anche ai familiari dei rappresentanti delle società concessionarie dei giochi di Stato. Insieme all’estensione, una norma che fa decadere la concessione e impedisce di partecipare a nuove gare chi quella documentazione non abbia portato. L’obbligo riguarda tutti i parenti ed affini fino al terzo grado. Non saranno milioni gli italiani interessati dalla norma, ma per quelli che dovranno rispettarla si tratta di fatto di una nuova tassa che si somma così alle non poche introdotte dal governo Monti. Dovrebbe essere la numero 55, ma ne spunta una nuova in ogni comma e la strada sembra ormai spianata all’esecutivo per raggiungere, e magari battere, anche il record delle 100 tasse varate nel 2006 dal governo di Romano Prodi. Balzello strano Spesso, venendo in ufficio a Libero, mi capita di incontrare il titolare di un negozio di articoli per ufficio del centro di Roma. È il suo mestiere da lustri, grazie a un franchising con un marchio assai noto del settore. Più volte mi ha fermato chiedendomi di scrivere proprio di quel balzello un po’ strampalato del certificato antimafia, che periodicamente deve rinnovare perché nella sua bottega si riforniscono numerose strutture ministeriali della zona. Per fare loro fattura, vendendo qualche risma di carta, cartucce per stampanti, penne biro e cose simili, ha bisogno di presentare quel certificato. In sé costerebbe qualcosa simile a 25 euro di bolli virtuali e non, chiedendolo alla locale Camera di Commercio. Ma siccome uno deve stare in negozio e servire anche l’altra clientela, inevitabilmente si rivolge per averlo a una agenzia o al commercialista che tiene la contabilità. E il costo, ovviamente, lievita. Ora che lui non sia un mafioso è evidente da anni e anni anche agli uffici pubblici che lì fanno acquisti in emergenza (le grandi forniture passano dalla centrale di acquisti comuni). Ma la legge gli impone ogni volta di ribadirlo, e via bolli e commissioni pagate all’intermediario. Timidamente il bottegaio mi chiedeva: «Non è possibile rinnovarlo invece che di sei mesi in sei mesi magari una volta ogni tre o quattro anni, che così le spese scendono un poco? Altrimenti si tratta solo di una tassa, e la mafia non c’entra proprio nulla». Ha ragione il bottegaio, e sembra davvero poco sensato quello che si è scelto sulle concessionarie di giochi pubblici. Per due motivi essenziali: la direzione da prendere dovrebbe essere quella suggerita dal bottegaio citato prima: controllate se uno è o non è mafioso solo una volta all’anno, e se possibile ogni due anni. Il rischio è limitato. Oppure fatelo fare una volta per tutte, e costituite una banca dati elettronica: il certificato perde validità automaticamente in caso di condanna per reati di quel tipo. E chi deve chiedere il certificato antimafia basta che si colleghi alla banca dati per verificarne l’esistenza. E i politici no? Il secondo motivo è di principio: perché io dovrei essere colpevole della cattiva condotta di mio zio o di mia zia che magari non frequento nemmeno e forse anche vivono in città lontane da dove io lavoro? E poi davvero, prima di legare il destino imprenditoriale e professionale di parenti e affini fino al terzo grado, il legislatore mostri i suoi legami alla stessa maniera. Impongano il certificato antimafia di questo tipo agli eletti di ogni ordine e grado e ai membri del governo. Ed estendano in quella misura le norme sul conflitto di interessi. Magari allegando alle meritorie dichiarazioni patrimoniali appena presentate dal governo e fra poco dai parlamentari anche quelle - obbligatorie - di parenti e affini fino al terzo grado. Poi si potrà imporre ad altri. di Fosca Bincher